Seconda lettera pastorale “Con Cristo Trasfigurati per un Territorio e Popolo di Trasfigurati”

Con Cristo Trasfigurati

per un Territorio e Popolo di Trasfigurati

Lc 9, 28-36

 

PRESENTAZIONE

CarissImi fratelli e sorelle in Cristo dell’Arcidiocesi di Manfredonia-Vieste-San Giovanni Rotondo ed amati cittadini e cittadine,

vi presento questo mio terzo testo, seconda Lettera pastorale, dal titolo Con Cristo Trasfigurati per un Territorio e Popolo di Trasfigurati, chiedendovi di accoglierlo come piccolo seme, che desidera portare la novità e bellezza del Vangelo quale dono per tutti gli abitanti del nostro amato Gargano.

Questo scritto intende collaborare per portare a maturazione il percorso pastorale iniziato nel 2015 con la Lettera di Mons. Michele Castoro intitolata Va’ e d’ora in poi non peccare più, che prevedeva uno sviluppo quinquennale ripercorrendo i così detti cinque verbi del Convegno Ecclesiale Nazionale di Firenze: uscire, annunciare, abitare, educare e trasfigurare. Il cammino ci ha consigliato di sviluppare il progetto in un periodo di tempo più ampio, raggiungendo al termine un decennio.

Ho suddiviso, come per le due precedenti, la Lettera pastorale in tre parti. La prima parte aiuta a approfondire il verbo TRASFIGURARE attraverso l’icona biblica della Trasfigurazione, secondo il racconto di Luca (Lc 9, 28-36), offrendone una triplice lettura: esegetica, spirituale-esistenziale, e evidenziandone le dinamiche. La seconda parte presenta i settori bisognosi di Trasfigurazione: si parte dall’economia, per arrivare alla Chiesa, passando attraverso la società, la cultura e l’ambiente. La terza parte intende offrire gli strumenti utili per poter programmare, sviluppare e verificare il cammino pastorale che viene proposto. Questa parte è il frutto del percorso di discernimento pastorale, avviato nello scorso mese di gennaio, e che ha cercato di coinvolgere, utilizzando lo stile ed il metodo sinodale, l’intera Arcidiocesi.

Ringrazio tutti ed invito tutti a sognare e scommettere sulla possibilità di TRASFIGURARE il nostro magnifico Territorio ed amato Popolo garganico!

 

Prima parte

Sul Tabor con Gesù, Pietro Giovanni e Giacomo

 

Amato Gargano,

la Chiesa che da ormai due millenni vive e cresce sul tuo territorio, che incanta con la sua irresistibile bellezza e racconta una storia di ricchezza culturale ed artistica inestimabile, sente di essere con te, per vocazione, una cosa sola e di doverti difendere e custodire con preziosa cura e tenero amore! L’alleanza che Dio ha stretto da sempre con te (Gn 9, 12-16) rende la Chiesa che abita in te solidale con te, la fa continuamente uscire per le tue strade ad annunciare il Vangelo, ad educare secondo i valori del Regno e ad essere fermento per trasfigurare ogni angolo e settore della tua unica geografia.

Negli ultimi anni la nostra Chiesa locale, illuminata dal “faro acceso al convegno ecclesiale nazionale di Firenze”[1], ha cercato di ascoltare e camminare guidata dalla luce di verbi che sono al contempo eredità ricevuta e missione da interpretare e sviluppare. Ognuno di questi (uscire, annunciare, abitare) ha marcato pastoralmente un anno, mentre il quarto (educare) è stato vissuto ed assimilato durante la grande crisi, che è stata maestra di vita, della pandemia da Covid-19. Siamo ancora dentro a questa crisi-lezione, ma già vogliamo non solo fare i conti con le ferite, ma osare vedere gli insegnamenti per un futuro nuovo e pieno di speranza per tutti e per tutto: per il Popolo e per il Territorio. E’ Tempo di farsi carico dell’opera di trasfigurazione.

 

Cari fratelli e sorelle in Cristo, amati cittadini,

il percorso avviato fin dal 2015 ed attualmente ancora in itinere è un esercizio di sinodalità, è coscienza di sapere che ci troviamo tutti sulla stessa barca colpiti da una tempesta e diretti verso la stessa sponda se intendiamo salvarci[2], è responsabilità a compiere come cittadini scelte condivise per il bene comune, e testimoniare come credenti la bellezza e la gioia di essere discepoli di Cristo.

Dopo le lettere Il Seminatore uscì a seminare e Amato Gargano, vi affido ora questa terza dal titolo Con Cristo Trasfigurati per un Territorio e Popolo di Trasfigurati. E’ frutto di due esercizi: di sguardo rivolto attraverso l’icona del Tabor secondo l’Evangelista Luca (Lc 9, 28-36) e di ascolto cercando di coinvolgere il cuore e la mente di più persone abitanti del nostro amato Gargano, delle associazioni, istituzioni e gruppi che lo costituiscono e che ci tengono al suo sviluppo sostenibile e al suo sano futuro.

Sono convinto che non esiste Chiesa, ma neppure società civile senza condivisione, senza far precedere la forza unificante del NOI a quella particolare dell’IO. E’ il NOI che armonizza senza diminuire, anzi esaltando il particolare e l’unicità propria dell’IO. E’ il NOI che cura e fa crescere in bellezza, bontà e verità l’IO, non il rovescio. Solo stringendoci in un NOI solidale il nostro Territorio diventerà ancora più irresistibile e affascinante in bellezza, e costituiremo un vero Popolo che contagia con la voglia di vivere ed amare.

A questo fine intende portare il contributo questa Lettera pastorale che nasce dal pensiero e riflessioni di molti che amano davvero il Gargano!

 

  1. Percorso in atto

Negli ultimi sei anni abbiamo vissuto il percorso pastorale tracciato dalle cinque vie indicateci dal Convegno Nazionale di Firenze. Ad ogni via corrisponde un verbo, ossia una chiamata ad una azione: uscire, annunciare, abitare e educare. Sul quarto verbo, educare, segnato dall’icona biblica della parabola del Seminatore (Mt 13, 1-9), decidemmo di dedicarci due anni, e la decisione maturò pochi giorni prima dell’insorgere della pandemia. Ora ci resta da percorrere l’ultima via, quella del verbo trasfigurare. L’icona biblica del monte Tabor, può richiamare il promontorio del nostro amato Gargano, e aiutarci a “far emergere la bellezza che c’è, e che il Signore non si stanca di suscitare nella concretezza dei giorni, delle persone che incontriamo e delle situazioni che viviamo”.[3] La via dell’educare che apre a quella del trasfigurare è stata vissuta in un tempo tutto particolare, dentro una situazione inedita per le nostre generazioni, che ci ha rimessi davanti a tutti i nostri limiti e smascherato le sicurezze su cui stavamo costruendo tanto la società che la Chiesa stessa. Ma anche questo tempo tremendo e doloroso è da collocare, per chi crede e intende collaborare ad un futuro di salvezza, dentro la storia sempre guidata dallo sguardo amorevole della Provvidenza.

Ribadisco, con poche modifiche, quanto dissi nell’esordio della messa crismale il 29 maggio 2020. La pandemia, giunta senza previsione, ha improvvisamente bloccato le nostre riflessioni e intenzioni, ha scalzato d’un tratto tutti i nostri PROGAMMI e CALENDARI, anche quelli pastorali. Ma lo Spirito Santo, anche nei giorni chiamati del lockdown è rimasto al lavoro, non è andato in ferie od in cassa integrazione: ci ha costretti a GUARDARE FUORI, ad USCIRE. Abbiamo sperimentato e capito che la Chiesa non era localizzabile solamente negli edifici dediti al culto e nei locali attigui abilitati alla pastorale corrente … al massimo da quei locali la Chiesa prende alimento, e verso quei locali guarda perché li sente strumenti di servizio all’unità … la Chiesa si è riscoperta viva e palpitante nelle case, nelle famiglie, riscoperte non solo come chiese domestiche, ma anche capaci di celebrare liturgie domestiche … la Chiesa si è sentita chiamata e si è vista crescere là dove si cerca di rispondere alle necessità dei poveri e sofferenti, non diminuiti, ma aumentati in numero e qualità. Abbiamo assistito e continuiamo ad assistere, se siamo obiettivi, NON ad un chiudersi della Chiesa su sé stessa (per la chiusura dei luoghi di culto o la riduzione delle capacità d’accoglienza dentro i propri locali), ma all’APRIRSI ed al farsi presente sull’insieme della città e del territorio.

Quello che i media e l’opinione pubblica chiamano “ripartenza”, non deve far dimenticare a noi l’operare dello Spirito, mediante il quale potremo sperimentare e testimoniare al mondo che possiamo vivere non una semplice “ripartenza” o “ripresa”, ma una autentica RINASCITA, una RISURREZIONE per tutti: Chiesa, società civile, territorio e l’intero pianeta. Abbiamo davanti un’opportunità da non sprecare per una Terra ed una Chiesa migliori e più umani di quanto non lo fossero a febbraio 2020. Desidero richiamare due affermazioni di Etty Illesum e di Papa Francesco, che seppur distanti tra loro di quasi ottant’anni, esprimono per noi discepoli di Cristo la certezza di essere accompagnati e mai abbandonati dal Padre celeste, e quindi della nostra responsabilità ad essere fermento creativo e generante per il Territorio ed il Popolo di cui siamo parte.

“Certo, accadono cose che un tempo la nostra ragione non avrebbe creduto possibili. Ma forse possediamo altri organi oltre alla ragione, organi che allora non conoscevamo, e che potrebbero farci capire questa realtà sconcertante. Io credo che per ogni evento l’uomo possieda un organo che gli consente di superarlo”. Sono parole scritte da Etty Illesum a fine dicembre 1942 mentre era internata nel campo di sterminio di Auschwitz, dove morirà poco dopo. Parole che interpretano l’Olocausto frutto della malvagità umana del nazismo e della Seconda Guerra mondiale. Mentre Papa Francesco parlando della Chiesa il 21 maggio 2020 alle Pontificie Opere Missionarie usò questa eloquente immagine: “La Chiesa ha il tratto genetico più intimo nell’operare dello Spirito Santo e non nelle nostre riflessioni e intenzioni … Lo Spirito Santo spinge a guardare fuori, non a guardare allo specchio. Rompete tutti gli specchi di casa”. Non c’è pandemia che possa frenare lo Spirito, dobbiamo esserne certi e non aver paura dei numeri diminuiti delle presenze nelle chiese, o lasciarci prendere dalla paralizzante nostalgia di un passato prossimo che non ritorna.

E per venire a citazioni più “laiche” riporto due affermazioni apparse ultimamente su due grandi quotidiani italiani.  Dialogando con la giornalista Elisabetta Fiori il sociologo Franco Garelli ha così sintetizzato la situazione dei credenti italiani in tempo di pandemia: “credono più nel diavolo, ma dell’aldilà non hanno un’immagine precisa. E in molti invocano una super religione che unisca in un’unica fede cattolicesimo, cristianesimo ortodosso, islam, ebraismo, buddismo e tutte le confessioni esistenti al mondo. Gli italiani e il sentimento religioso: com’è cambiato sotto la pandemia il nostro bisogno di Dio? È come un albero scrollato da una mano invisibile. Le foglie secche cadono. …”[4]. Mentre la giornalista Fiorenza Sarzanini così commenta: “In questi lunghissimi 15 mesi i cittadini – tranne sporadiche eccezioni – hanno dato prova di grande senso civico. Anche nei momenti più difficili, quando la rabbia avrebbe potuto prendere pericolosamente il sopravvento, hanno saputo gestire una situazione di immane precarietà. La classe dirigente e i politici devono ora mostrare la stessa maturità, lo stesso senso di responsabilità. Trovato l’accordo per ripartire, è bene che ognuno faccia la propria parte senza cercare nuovi pretesti per litigare o inseguire interessi di parte. Almeno fino a quando non avremo elargito i sostegni e messi al sicuro i soldi del Recovery Fund. Fino a quando non avremo gettato le basi per quelle riforme che possono far rimanere il nostro Paese saldamente al centro della scena internazionale. Sicuramente fino a quando non potremo dire: il Covid 19 non è più una minaccia”[5].

Come credenti della Chiesa che è in Manfredonia-Vieste-San Giovanni Rotondo non dobbiamo aver paura di contarci e scoprirci diminuiti di numero, di vedere il nostro albero scrollato, né contare unicamente sull’operato della classe dirigente, dobbiamo avere la certezza che stiamo vivendo il tempo della semina, non il tempo del raccolto. Credo che questa pandemia, ci dica essenzialmente questo, siamo nel tempo della semina, e la semina si fa in autunno. Allora per tutti ci vuole il coraggio e la generosità del seminare, del seminare a piene mani, del seminare speranza per tutti, del seminare prossimità verso tutti, del seminare Vangelo per tutti: è la nostra missione, e siamo stati chiamati ad interpretarla in questo tempo particolare. Solo così collaboreremo a guarire le ferite della pandemia. E’ ancora Papa Francesco che ci sprona: “se la prima tappa di ogni vera guarigione interiore è accogliere la propria storia, ossia fare spazio dentro noi stessi a ciò che non abbiamo scelto nella nostra vita, serve però aggiungere un’altra caratteristica importante: il coraggio creativo. Esso emerge soprattutto quando si incontrano difficoltà. Infatti, davanti a una difficoltà ci si può fermare e abbandonare il campo, oppure ingegnarsi in qualche modo. Sono a volte proprio le difficoltà che tirano fuori da ciascuno di noi risorse che nemmeno pensavamo di avere”[6].

 

Cari fratelli e sorelle in Cristo e amati cittadini,

abbiamo percorso insieme e con passione quattro vie (uscire, annunciare, abitare e educare), ci siamo interrogati ed ascoltati a partire da febbraio seguendo lo stile di un processo sinodale, sentiamoci ora tutti coinvolti nel grande sogno comune di TRASFIGURARE il Territorio e il Popolo del nostro amato Gargano. Incominciamo contemplando il Cristo Trasfigurato secondo il racconto lasciatoci dall’Evangelista Luca.

 

  1. L’icona biblica: Lc 9, 26-37

 La scena evangelica della Trasfigurazione è riportata dai tre Evangelisti sinottici in una posizione centrale e di forte decisione da parte di Gesù[7]. Segue immediatamente l’episodio della professione di fede di Pietro, attraverso la quale il Maestro sprona gli Apostoli a prendere posizione nei suoi confronti, e si presenta quasi come apripista alla risoluzione di avviarsi verso Gerusalemme. Gerusalemme è la città del compimento delle promesse dell’Alleanza tra Dio e il suo Popolo; la città della redenzione attraverso il mistero della Passione, Morte e Risurrezione di Gesù; per ultimo la città della partenza per la missione e testimonianza dei Discepoli che dovrà giungere fino ai confini della terra sotto la guida dello Spirito. I tre testi sono non solamente paralleli, ma pari nella quantità della descrizione: ognuno è composto di nove versetti e si aprono con una precisazione temporale, per Matteo e Marco si tratta di sei giorni dopo, mentre per Luca di circa otto giorni dopo. Se il numero sei dice imperfezione, difficoltà e fatica, il numero otto rimanda con facilità al compimento ed alla Pasqua. Per questa nota temporale e per l’esplicito riferimento alla motivazione che portò Gesù a farsi accompagnare dai tre Apostoli, la preghiera, ho preferito scegliere la versione lucana. Inoltre la descrizione di Luca rimanda per terminologia ed immagini alla scena dell’Ascensione come riferita negli Atti degli Apostoli (At 1, 6-11), e si può ritrovare in altri due avvenimenti descritti dallo stesso evangelista: l’episodio dei discepoli di Emmaus e l’incontro tra Filippo ed il funzionario etiope[8].

Come ho già fatto nella Lettera pastorale 2019-2020[9] propongo tre linee di lettura del testo. Attraverso questo procedere invito me e tutti a leggere con attenzione e calma il brano, lasciando che entri nel cuore, si sedimenti e lo illumini con le novità e le bellezze che si nascondono ad una lettura affrettata ed abitudinaria. L’abitudine ai testi evangelici ci fa rischiare sovente di perderne proprio la novità e la sconvolgente logica che contengono: abituarci alla lettura del Vangelo non significa essere degli abitudinari ripetitivi o dei credenti che ritengono di possedere già tutto quanto l’insegnamento del Signore! Diventa quindi sempre utile rifarci al metodo della lectio divina, anche se ci chiede tempo e silenzio: lettura, meditazione, preghiera e contemplazione! Come pure non deve mai perdersi di vista la lettura attinente alla situazione socio-culturale in cui siamo chiamati ad ascoltare, annunciare e rendere vivo il Vangelo. Inoltre può essere anche utile guardare alle dinamiche e immagini presenti nel racconto dell’avvenimento vedendole come rivelative alla finalità “trasfigurante”. Propongo quindi di seguito tre differenti modalità di accostarci al testo biblico: l’esegesi che apre alla lectio, lettura spirituale ed esistenziale ed uno sguardo guidato dalle dinamiche interne al brano. Insieme queste tre letture ci aiuteranno ad arricchire la testimonianza di discepoli, e di missionari impegnando la nostra responsabilità e libertà trasfigurante verso sé stessi, il creato, l’umanità e la Chiesa.

  • Esegesi del testo biblico di Lc 9, 28-36

 Osservazioni sulla forma del testo

      Uno sguardo attento alla lettera del testo è imprescindibile, perché il Verbo si è fatto carne (Gv 1, 14) e ha assunto pienamente l’umanità. Nella Parola convivono lettera e Spirito. Fermarsi sulla lettera è necessario per non disperdere l’azione dello Spirito, di cui la stessa lettera è intrisa.

Per questo guardiamo al testo e a quello che l’evangelista ha voluto suggerire. Luca ripropone e rielabora il brano di Mc 9,1-11, ma apporta delle significative varianti per esplicitare alcuni tratti tipici della sua visione teologica. Innanzitutto Gesù sale sul monte per pregare, aspetto tipico della teologia lucana, e porta con sé tre discepoli. Si presentano poi due uomini, Mosè ed Elia, che parlano del suo esodo: inteso come termine tecnico, come una glossa esplicativa[10]. Gli occhi dei discepoli sono appesantiti, tuttavia vegliano e vedono. Quando parla Pietro le motivazioni sono diverse: in Marco per paura, in Matteo per gioia, in Luca si dice che parla “non sapendo”, e il suo parlare avviene quando vede che i due personaggi vanno via. Il timore si presenta quando essi stanno per entrare nella nube. In Luca è infine assente l’ordine sul silenzio ed il discorso fra i discepoli e Gesù scendendo dal monte.

 

  • Osservazioni linguistiche

Uno dei verbi reggenti dell’intera pericope è ἐγένετο (egeneto, “accadde”, “avvenne”). Si riferisce alla manifestazione dell’identità di Gesù, evento che offre ai discepoli e alle Chiese un percorso per maturare l’intelligenza dell’esperienza del Cristo. A differenza di Marco e Matteo, Luca apre la narrazione dicendo “otto giorni dopo questi discorsi”. Perché otto e non sei? Cosa ha voluto dirci Luca? Ha voluto legare l’esperienza della Trasfigurazione con la Resurrezione di Gesù. L’ottavo giorno è, infatti, quello del Risorto, e in questo stesso giorno Luca organizza tutte le narrazioni presenti nel capitolo 24, il capitolo delle apparizioni del Risorto.

Luca presenta due momenti distinti all’interno del racconto. Nella prima parte c’è il dialogo fra Gesù, Mosè ed Elia. In questa fase i discepoli hanno una comprensione parziale di quello che sta accadendo, poiché hanno gli occhi appesantiti. Nella seconda parte la voce della nube rivela Gesù come il Figlio, l’Eletto. In questa seconda fase i discepoli hanno timore. Tutto culmina nel silenzio finale.

Il testo pone subito l’accento su Gesù. Fino al v. 30 tutti i riferimenti dei verbi e dei pronomi sono rivolti a Lui. E’ Gesù che prende l’iniziativa portando con sé Pietro, Giovanni e Giacomo. I verbi che descrivono questo movimento sono tutti all’aoristo e indicano la novità e perfezione dell’azione. Sappiamo che Gesù pregava sempre, quindi l’evangelista avrebbe potuto usare un presente. Scegliendo l’aoristo intende invece indicare la novità e pienezza dell’azione, introdurre all’evento che sta per accadere: la Trasfigurazione. Gesù dunque prega, il suo volto diviene altro (ἕτερον, heteron) e le sue vesti come fiammeggianti, come se mandassero dei lampi (è questo il significato del participio presente ἐξαστράπτων, exastraptōn). È temporaneamente “tolto” il velo e i tre discepoli vedono e ascoltano il dialogo di Gesù con Mosè ed Elia (v. 31). Per dire che i due sono apparsi in gloria (οἳ ὀφθέντες ἐν δόξῃ, oi ofthentes en doxē) Luca usa un participio aoristo. Ma quando deve raccontare il dialogo tra i tre, i verbi sono tutti all’imperfetto. Tra i temi del dialogo Luca ne indica uno decisivo: l’esodo di Gesù, che stava per compiere o rendere pieno, completo (ἣν ἤμελλεν πληροῦν, ēn ēmellen plēroun) a Gerusalemme. Al v. 32 il focus è su Pietro e su quelli che erano con lui. I tre erano appesantiti dal sonno e non riuscivano a tenere gli occhi aperti. Ma (δὲ) vegliando (διαγρηγορήσαντες, diagrēgorēsantes, participio aoristo attivo da diagregoreō) videro (εἶδον, eidon, indicativo aoristo da oraō) la sua Gloria (τὴν δόξαν αὐτοῦ, tēn doxan autou). È un versetto decisivo. Adesso i discepoli vedono la Gloria di Gesù e i due che parlano con Lui. Pietro propone di fare tre capanne, il verbo è ancora all’aoristo (novità dell’azione), ma non sapeva quello che diceva. Nell’essere separati da loro (ἐν τῷ διαχωρίζεσθαι, en tō diachōrizesthai, infinito presene passivo, da diachōrizomai)[11], li avvolse (ἐπεσκίαζεν, epeskiazen, indicativo imperfetto da episkiazō) una nube e furono spaventati (ἐφοβήθησαν, efobēthēsan, indicativo aoristo). Udirono una voce dalla nuvola. Era il Padre che confermava l’identità di Gesù il Figlio, è Lui l’Eletto (ὁ ἐκλελεγμένος, eklelegmenos, “colui che è stato scelto”, un participio perfetto per dire che l’elezione di Gesù è un’azione già avvenuta e conclusa nel passato, in quell’eternità che è da sempre in Dio). Quindi nuova attenzione su Gesù che fu trovato (εὑρέθη, eurethē, indicativo aoristo passivo) solo. Segue il silenzio dei discepoli.

L’evangelista Luca adotta un comune impianto narrativo per legare il brano della Trasfigurazione con quello dell’apparizione del Risorto ai due di Emmaus. L’esperienza dell’incontro con il Risorto è una chiave di lettura decisiva per comprendere il senso profondo di tutti i fatti del suo ministero terreno. Nel terzo evangelo, prima di Pasqua Gesù è sempre rivelato, dopo Pasqua è riconosciuto, con un evidente riferimento alla mediazione sacramentale, Eucarestia e Battesimo, visti come prolungamento dell’umanità di Gesù. Luca compone i versi in 9, 28-36 guardando al testo di 24, 13-35. Sono evidenti inoltre i legami con At 8, 26-40, la diaconia di Filippo verso il funzionario etiope.

 

  • Esegesi e teologia

      Salire, sostare, scendere. Ma occorre scendere per salire. Sale, infatti, chi scende, chi si fa trovare umile, “santa passività” che consente al Signore di agire, rendendo il suo servo umile come fecondo strumento della sua pace. È necessario rispondere alla chiamata, seguire Gesù, salire con lui, stare alla sua presenza in preghiera, lasciarsi introdurre da lui, mediante lo Spirito, nella comunione con il Padre, contemplando la sua Gloria, e quindi scendere per servire. I temi teologici lucani della pericope indicano il legame essenziale ed inscindibile tra incarnazione, morte e resurrezione di Gesù (Esodo, Gerusalemme, Gloria), ma anche quelli inerenti al cammino di servizio e sequela dei discepoli, il loro dormiveglia, ma nello stesso tempo il vegliare che “permette” loro di contemplare. Altro tema presente è quello della familiarità con le Scritture e della relazione di queste col Cristo.

Analizziamo ora il testo (Lc 9, 28-36) versetto per versetto.

 

28 Circa otto giorni dopo questi discorsi, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare.

Otto giorni. L’ottavo giorno è quello della resurrezione di Gesù: la Trasfigurazione “anticipa” la Pasqua.

Prese con sé. Il verbo paralambanein con il significato di assumere, unire a sé, è utilizzato da Luca anche in 9, 10, per dire che Gesù “prende con sé” i dodici portandoli in disparte dopo il loro ritorno dalla missione evangelizzatrice; e poi in 18, 31 quando Gesù prima dell’ultimo annunzio della passione “prende” ancora una volta i Dodici “con sé” per preparare il gruppo al suo esodo. C’è quindi una particolare attenzione che Gesù rivolge ai suoi in vista della loro testimonianza (cf 2 Cor 13, 1). Marco utilizzerà il verbo anche nel Getsemani (Mc 14, 33), quando Gesù “prese con sé” proprio i tre che qui sono citati. Per Pietro, Giacomo e Giovanni si tratta di una scuola di preghiera che essi ricevono da Gesù perché estendano tale stile all’intera comunità degli Apostoli.

Salì. E’ un verbo che Luca collega alle ascensioni verso Gerusalemme e al tempio (Lc 2, 4.42; 18, 10; 19, 28). Un uso differente si registra nell’episodio dei due di Emmaus, ai quali Gesù dice: “perché sorgono (“salgono”) dubbi nel vostro cuore?” (Lc 24, 38).    

Il monte. Luogo di preghiera (Mt 14, 23; Lc 6, 12) e di rivelazione (Mt 5, 1; 28, 16). Identificato con l’Oreb (cf. 2 Pt 1, 18; Es 19, 3 «Mosè salì verso Dio e il Signore lo chiamò dal monte», è la stessa espressione).

Pregare. Gesù è l’orante e la preghiera è il suo stile quotidiano (Mc 1, 35; 6, 46). Per Luca Gesù era solito pregare anche per una notte intera (Lc 6, 12). Qui, la preghiera “prepara” la passione (cf. Sal 109, 4).

 

29 Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto (lett. divenne altro) e la sua veste divenne candida e sfolgorante.

 

Mentre pregava. La preghiera precede e accompagna la rivelazione (9, 18; 11, 1): tanto nell’episodio del Battesimo che nella Trasfigurazione Gesù è manifestato durante la preghiera. Questa rivelazione non solo avviene per ordine del Padre, ma rivela il suo rapporto con il Padre. Gesù dice: “Padre mio” e il Padre risponde: “Figlio mio”, “mio Eletto”.

Cambiò d’aspetto. Marco e Matteo parlano di metamorfosi. Luca non utilizza questo verbo, ma dice che il suo volto divenne altro. Si tratta dell’effetto della preghiera. La Trasfigurazione “anticipa” quella Gloria di Gesù che da dopo la resurrezione sarà percepibile per la comunità cristiana attraverso la mediazione liturgico sacramentale. Per questo l’Apostolo Paolo può dire alla chiesa di Corinto: “anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne ora non lo conosciamo più così” (2Cor 5,16). Nella Trasfigurazione i tre discepoli conoscono il Cristo secondo lo Spirito e fanno esperienza della dynameis di Dio (cf Rm 1, 3), realtà che rimanda alla parusia, giudizio nell’ultimo giorno, ma anche qualità del Risorto qui “anticipata” nella Trasfigurazione. Anche il volto di Mosè era raggiante, quando scese dal Sinai con le due tavole della testimonianza (Es 34, 29-35). Ma con Gesù c’è ben più di Mosè: Egli è quel re pieno di splendore che indicava il profeta Isaia (Is 33, 17). I discepoli “vedono” la sua Gloria (cf Gv 1, 14); la sublimità della conoscenza di Cristo (cf Fil 3, 7) è superiore ad ogni altra forma di manifestazione del divino.

Sfolgorante. Termine usato in Ezechiele per il carro della Gloria: “un turbinio di fuoco che splendeva tutt’intorno” (1, 4) e in Daniele 16, 6: “le gambe somigliavano a bronzo lucente”.

30 Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elia,

31 apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme.

Mosè ed Elia. Due uomini che hanno vissuto una forte intimità con Dio. Il dialogo con il Signore aveva trasfigurato il volto di Mosè (Es 33, 11; Es 34, 29-35), lo stesso effetto aveva sperimentato Elia sull’Oreb (cf 1 Re 19). Il Libro dei Numeri dice che “Mosè parlava con Dio bocca a bocca” (cf Nm 12, 7-8). Questi due personaggi, apparsi nella loro gloria, parlano con Gesù. Per Luca l’argomento del dialogo è la “dipartita” di Gesù, cioè del suo exodus, la sua uscita “che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme”.

L’esodo, che diviene il centro delle Scritture (cf Lc 24,27), è il passaggio, la morte, (cf. 2 Pt 1, 15), la morte di Cristo come il suo esodo verso il Padre (tema molto presente in Giovanni). Nell’Antico Testamento è presente nei salmi delle Ascensioni (121, 8), indica la morte del giusto (cf. Sap 3, 2) e la morte in generale (cf. Sap 7, 6).

Portare a compimento. Nulla avviene al di fuori dell’annuncio dato dalla Legge e dai Profeti. L’esodo di Gesù va colto in connessione con l’unico evento salvifico della sua morte, resurrezione e ascensione.

32 Pietro e i suoi compagni erano oppressi (appesantiti) dal sonno; ma, quando si svegliarono (lett. vegliando), videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui.

 

Il sonno indica la pesantezza che caratterizza l’uomo di fronte ai misteri divini. Adamo è indotto al sonno da Dio stesso quando è creata Eva (Gn 2, 21). Il sonno (tardemah) ricorre anche nella stipulazione dell’alleanza tra Dio ed Abramo (Gn 15, 12). L’Apostolo invita a svegliarsi da questo sonno perché la notte è inoltrata e il giorno già si sta avvicinando (cf Rm 13, 12). Il sonno è quindi rifiuto della luce. Qui i discepoli lottano per restare svegli, mentre non si comporteranno allo stesso modo nel Getsemani (22, 45): luogo nel quale si registra una distanza apparentemente insanabile fra Gesù ed i discepoli. Il Cristo è infatti nella prova, dalla quale sono esclusi i discepoli. Essi in quel momento non potranno bere del suo stesso calice, lo faranno in futuro.

 

33 Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: “Maestro, è bello per noi essere qui (lett. se noi siamo qui). Facciamo tre capanne (tende), una per te, una per Mosè e una per Elia”. Egli non sapeva quello che diceva.

Le tre capanne esprimono il tentativo di fissare in una dimora, fatta da mano d’uomo, la gloria di Dio, che irradia dal Cristo. Pietro non sa quello che dice perché “i cieli dei cieli non possono contenerti – dice Salomone – tanto meno questa casa che ti ho costruita” (1 Re 8, 27). Come interpretare l’annotazione che Pietro non sapeva quello che diceva? L’esclamazione dell’apostolo corrisponde al desiderio più volte espresso nei salmi: “Signore, chi abiterà nella tua tenda? Chi dimorerà sul tuo santo monte?” (14, 1); “Tu li nascondi al riparo del tuo volto, lontano dagli intrighi degli uomini; li metti al sicuro nella tua tenda, lontano dalla rissa delle lingue” (30, 21); “Dimorerò nella tua tenda per sempre, all’ombra delle tue ali troverò riparo” (60 ,5). Pur esprimendo il desiderio del pio israelita di abitare nella tenda del Signore, Pietro non sapeva quello che diceva, perché tutto ciò che riguarda Gesù va oltre il momento della Trasfigurazione, il suo sguardo è rivolto alla Pasqua e al passaggio-exodus, a cui la Pasqua è legata.

 

34 Mentre parlava così, venne una nube e li coprì (avvolse) con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura.

Nube. È un’immagine essenziale nella manifestazione divina dell’Antico Testamento (cf Es 24, 15ss; 40, 35): la nube avvolge Dio e ciò che gli appartiene. Qui avvolge Gesù assieme ad Elia e a Mosè. Il testo sembra includere nell’ingresso nella nube anche i tre discepoli e quindi esaudire in parte la richiesta di Pietro. È la stessa nube che aveva ricoperto il tabernacolo (cf Es 40, 34-38), quale luogo della presenza di Dio. Questa nube ha un duplice significato: da una parte dice la presenza di Dio, ma dall’altra nasconde, vela, impedisce di vedere in modo perfetto e pieno. Ed è solo questa la percezione, parziale e velata, della Gloria di Dio che viene donata all’umanità sulla terra: il Signore c’è e la sua Gloria è presente, ma nello stesso tempo è una Gloria velata impossibile a contemplarsi senza accettare l’oscurità della fede.

35 E dalla nube uscì una voce, che diceva: “Questi è il Figlio mio, l’eletto (Colui che ho scelto); ascoltatelo!”.

 

I due titoli che il Padre dà a Gesù richiamano tre testi scritturistici: il Sal 2, 7 (salmo messianico e regale), Is 42, 1 (il Servo del Signore) e Dt 18, 15.19 (il Profeta). L’esodo costituito dalla Passione, Morte in Croce e Risurrezione stanno per rivelarlo come il Cristo e l’eletto del Padre agli occhi di tutti. Il comando di ascoltarlo, cioè di obbedirgli, è quindi rivolto a tutti. La Legge e i Profeti costituiscono il cammino pedagogico (cf Paolo) per ascoltare il Figlio, quindi chi ascolta la Legge e i Profeti non può che ascoltare Gesù. Infatti i tre testi citati implicitamente nella voce paterna appartengono alle tre sezioni della Scrittura. Il Risorto lo ribadirà ai due di Emmaus (cf Lc 24, 44: “Sono queste le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi”).

 

36 Appena la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.

 

Gesù resta solo. I discepoli avvolgono nel silenzio questa rivelazione perché ora tutto deve concentrarsi sulla sua salita a Gerusalemme e sull’esodo di Passione, Morte e Risurrezione. Si veda l’uso simile dello stesso verbo eurethē riferito a Maria: essa “fu trovata”, passivo teologico che svela l’iniziativa di Dio. Gesù è dunque oggetto dell’azione del Padre, infatti, alla fine c’è la voce rivelante di Dio, mentre all’inizio c’erano gli effetti della sua azione. Ma è anche soggetto attivo, perché è trasformato già prima dell’incontro con Dio.

Il fatto che al centro della visione vi sia una Parola, quella del Padre, indica la mediazione che anche oggi la Scrittura ci dona mediante la Chiesa, Popolo che ascolta per vedere, o meglio contemplare. Siamo dunque Chiesa, poiché Popolo di trasfigurati, di coloro che hanno fatto esperienza della relazione con Dio, relazione però che deve passare per il crogiuolo della Croce, affinché nella vita piena ed in abbondanza (cf Gv 10), possa rivelarci davanti al mondo come figli nel Figlio Crocifisso e Risorto, come gente di Pasqua!

 

2.2.      Commento spirituale ed esistenziale

 

            Mi sono fatto aiutare per questa riflessione dal sapore spirituale ed esistenziale sul testo lucano della trasfigurazione da un amico, dottorando in studi teologici[12]. Desidero quindi partecipare di una lettura, compiuta in ascolto di un “cuore”, che ha la freschezza e l’entusiasmo della gioventù, il forte desiderio di impegnare il proprio futuro nella missione di evangelizzare, senza perdere la profondità della preparazione esegetica e teologica. Quanto segue di questo paragrafo è quindi generato da un dialogo tra un giovane di oggi ed un vescovo che prova a mettersi in esercizio sinodale con la generazione che è già protagonista del nuovo millennio.

Il verbo educare, che abbiamo tenuto come riferimento negli anni pastorali segnati dalla pandemia, si impara e si coniuga con frutto a condizione di vivere insieme un’esperienza. L’esperienza della trasfigurazione entro la quale ci accompagna Gesù – posta nei capitoli centrali dei Vangeli – è sicuramente tra le più significative: allora cerchiamo di entrarci dentro e scopriamo come potremmo riviverla anche noi oggi. In particolare consideriamo la prospettiva che ci offre l’elegante evangelista Luca, sempre attento alla preghiera, alla condivisione e al cammino: tre sostantivi che qualificano la narrazione del terzo Vangelo.

Ci troviamo al centro di un percorso, tra la predicazione iniziale e quella a Gerusalemme, con la sua vita donata: tra il Battesimo e la Croce. La trasfigurazione è l’esperienza della luce del Risorto in cui riecheggia per noi la voce appassionata del Battesimo. In questo evento Gesù viene mostrato per Colui che è: innanzitutto Figlio. Poco prima Luca aveva parlato infatti dei dubbi che si avevano sulla sua identità. Ora, tutto tende verso il compimento della vita del Figlio, scelto dal Padre perché sia il suo Servo sofferente a vivere la passione e la gloria, legate in modo indissolubile. Lasciamoci emozionare dal fatto che la gloria è «sua e del Padre e degli angeli santi»: non si limita solo al Padre, né ad una conversazione riservata tra il Padre e il Figlio, ma è aperta, condivisa con tutti coloro che annunciano la Parola di Dio con la loro vita. Qualcuno però si vergogna (in greco epaischunomai) di Gesù e del suo Evangelo: che cosa potrebbe significare? È l’atteggiamento intimorito, comune anche all’apostolo Pietro dopo l’arresto di Gesù, che ci fa nascondere il nostro vero volto e dire «non lo conosco» (Lc 22, 57): è la “disgrazia” di chi ha paura di condividere le “disgrazie” proprie e degli altri. È anche l’atteggiamento rassegnato, comune ai due discepoli in cammino verso Emmaus nella domenica della Risurrezione, di ammettere la delusione del «noi speravamo …» (Lc 24, 21). E invece Gesù è diverso da quanto pensavamo e credevamo di “sperare”, Lui è vero; ma l’illusione infranta dalla Croce apre a una nuova realtà da abitare, in cui Dio è definitivamente presente. Non vergognarsi allora non significa esibire crocifissi e rosari, processioni e veri o presunti “valori cristiani”, bensì seguire personalmente la via del Crocifisso che si fa trovare sempre, in modo nuovo e sovente incognito, anche e soprattutto al di fuori delle mura dei nostri luoghi di culto e di attività pastorale. Significa, anche quando non vediamo immediate “gloriose” guarigioni, riconoscerlo incarnando il suo stile di affettuosa vicinanza, non dimenticandoci di Lui quando siamo in mezzo agli altri, chiunque essi siano e comunque si qualifichino.

Tra la ricchezza infinita dei simboli e dei temi che vengono richiamati nella scena della trasfigurazione, che ci fa assaporare la salvezza della Pasqua, Luca sottolinea quello della preghiera. A differenza di altri evangelisti, Luca che si rivolge a lettori di cultura greca non usa direttamente il termine metamorfosi, per distinguere l’esperienza dischiusa da Gesù dalle trasformazioni della mitologia classica di personaggi umani e divini in animali, e viceversa. L’evento di Gesù viene descritto come gloria condivisa, come raggi sfolgoranti che escono fuori (ex-astraptō), come diversità (heteros). È l’incontro con qualcosa di nuovo e diverso che stravolge, converte e trasfigura la tua visione e rende i tuoi occhi raggianti, in grado di vedere luce lungo il cammino: questo è quanto opera la preghiera, quando è autentica, come quella del Figlio di Dio. Possiamo vedere Dio già prima della nostra morte; infatti Gesù ci conduce precisamente dentro alla sua preghiera. Nella sua intimità troviamo l’abbraccio del Padre che rinnova la fiducia nel Figlio, nonostante le incomprensioni che si consumano sulla sua identità. In fondo, solamente il Padre ci “com-prende”: ci abbraccia davvero (Lc 15, 20). Nel Figlio che prega il Padre tutto cambia. In quella intimità dilatata universalmente è convocato il passato e il presente, tutto proteso verso la futura meta pasquale. La preghiera ci introduce anche alla conversazione con Mosè ed Elia – entrambi personaggi fedeli alla Legge e alla Profezia di Dio, rifiutati in vita dagli uomini ma attesi alla fine – che Gesù ascolta parlare riferendosi in modo speciale a Lui e alla sua dipartita (in greco ex-odos, cioè “cammino di uscita”). Solo Luca immagina l’argomento della loro conversazione. Mosè ed Elia, nel ricondurre tutti a Dio, per prima cosa scelgono di stare con il futuro Crocifisso. Pregando la Bibbia, vivendola tutta quanta nella nostra vita, iniziamo a conversare con gli stessi personaggi e sentiamo che stanno parlando non solamente a noi, ma proprio di noi. Parlano del nostro esodo, della nostra chiamata a uscire fuori dalle comode abitudini, della nostra missione di andare incontro a Dio, che sta per compiersi nel cammino. Nel caso di Gesù la prima meta è Gerusalemme, sulla via della Croce, poi sarà autentica Risurrezione!

Nella preghiera, quando ascoltiamo quella voce per noi, troviamo la forza per affrontare il nostro cammino, fuori, in modo nuovo. Non comprendiamo ancora in pienezza, ma questa nuova esperienza condivisa non lascia indifferente il nostro sguardo. Impariamo a conoscere, soprattutto fuori, un Gesù sempre diverso. Infatti la voce di Dio esce – per rivolgersi a noi – fuori dalla nube della sua presenza, ci invita ad ascoltarlo direttamente, evitando di sostituirlo con altre voci, e ci spinge fuori a vivere la medesima esperienza divina nel mondo: ci fa nascere al mondo da discepoli-battezzati. I discepoli potevano solamente farfugliare qualcosa; avevano goffamente provato a eternizzare quella gloria solo per loro e senza passare dalla Croce. Ma continuare a seguire Gesù – innanzitutto scendendo dal monte, andando incontro alla folla – dilaterà la loro sensibilità spirituale, cioè la loro attenzione, la loro capacità di riconoscerlo ovunque, senza ridurlo alle cose “belle” che già conoscevano, come quella festa delle capanne a cui pensava Pietro. I due discepoli in fuga verso Emmaus (Lc 24, 13-35), che poco avevano compreso, erano stati avvolti anch’essi dalla nube di Dio, che accompagna la futura venuta come pure l’esodo del popolo eletto. Anche il futuro è propriamente un esodo, un’uscita. Lì, nella preghiera, Gesù ha cambiato volto, ha attinto alla pienezza divina, ma resta pur sempre uomo nella sua ordinarietà. I discepoli però hanno un comprensibile sacro timore. Sebbene tutto ciò sia rivolto a loro, il timore può facilmente tramutarsi in paura e persino in vergogna di una gloria alla quale si accede per mezzo del nudo legno della Croce. Gesù quindi resta solo, e i tre restano muti. A ben vedere, a parlare per noi resterà il solo corpo di Gesù. Questo ci basta. Quel corpo che salirà sul monte della Morte e scenderà nel sepolcro per essere pronto alla Resurrezione. Lì, nella sua e nella nostra carne umana, è dato universalmente lo Spirito per comprendere qualcosa in più del cammino percorso sin qua e per annunciarlo a tutto il mondo dei poveri, dei malati, degli esclusi, dei disillusi, e persino dei malvagi: da discepoli di Cristo siamo chiamati a benedire, non a maledire (Rm 12, 14)! Così, nell’umiltà della preghiera che attinge alla conversazione con le Scritture, che ci testimoniano l’ostinata presenza dell’amore nell’abbandono completo del Figlio di Dio fatto uomo (Fil 2, 5-8), possiamo condividere la desiderata Trasfigurazione continua e senza fine anche nella nostra quotidianità debole e timorosa. Di tale condivisione, la Trasfigurazione alla quale hanno assistito i tre discepoli sul quel monte, non era che un tenero assaggio di quanto ci attende nel futuro e che si rivela in momenti speciali del presente.

 

2.3. Lettura per dinamiche interne al testo della Trasfigurazione

 

  1. Il dato teologico: processo di rivelazione e cambiamento

Il verbo trasfigurare fa allusione a un processo di cambiamento. Non è un semplice passaggio da una figura ad un’altra (= trans-figurare). Non si tratta di un cambiamento qualsiasi, di una illusione scenica o metamorfosi biologica. Gesù quando si è trasfigurato non ha solo subito un cambio di figura, ma ha vissuto una opportunità, ha compiuto un atto epifanico al fine di rivelare la sua vera natura e con essa anche la possibilità connessa alla stessa natura umana. Nella Trasfigurazione Gesù non abbandona la forma umana, ma la abita in profondità al punto di elevarla e illuminarne l’essenza. Per trasfigurare l’umano dobbiamo imparare ad abitarlo in profondità, come Gesù che non sovrappone la forma divina a quella umana, ma la trasforma dal di dentro. Attraverso il trasfigurare non solo rivela chi Egli veramente è, ma svela anche le possibilità dell’umanità: per che cosa è fatta e quale sia il termine ultimo del suo compimento. Gesù si rivela a noi e rivela noi a noi: mette in evidenza la verità e bellezza dell’atto creativo del Padre. Rivela quale forma si nasconde in noi, forma che il peccato ha solo nascosto o reso problematico, ma non cancellato o impedito per sempre. Il peccato si è frapposto tra noi e Lui, tra noi e la forma che Egli ha plasmato e trasmesso nel dna del nostro essere a Sua immagine e somiglianza (Gn 1, 26); immagine e somiglianza che non viene meno. La Trasfigurazione è l’epifania della forma umana solo sfigurata non perduta, della forma mantenuta e custodita sul volto del Figlio che ora si illumina e illumina. Vedendo il Cristo trasfigurato, Pietro, Giovanni e Giacomo vedono la verità e bellezza di sé stessi, vedono anticipata la loro futura Trasfigurazione. Vedendo il volto di Gesù cambiato d’aspetto e la veste candida e sfolgorante, i tre vedono il proprio volto ridisegnato e trasfigurato da quella bellezza di cui avevano perso le tracce. E’ quanto fu valido per Pietro, Giovanni e Giacomo lo può essere per ogni discepolo, per ognuno di noi oggi. Nella sua veste, simbolo dell’uomo nuovo, ognuno può vedere la propria vestizione, vedere la propria nudità coperta da quel mantello di cui parla il profeta Ezechiele (Ez 16, 8ss), ritornata a vivere della grazia originale (Gn 2, 15-25).

L’esperienza della Trasfigurazione è assunzione di umanità; è entrata nella sponsalità umano-divina annunciata dai Profeti della Prima Alleanza; è rivelazione di ciò che davvero l’umanità è e che non sa più di essere, perché il peccato ha cercato di oscurare la verità e grazia originale.

La Trasfigurazione anticipa, usando un termine della Scolastica di San Tommaso, la transustanziazione eucaristica: i corpi non sono più soltanto dei corpi fisici e i volti non sono più solo facce somatiche. Alla luce della Trasfigurazione sono diventati luoghi non più soltanto umani, ma anche luoghi teologici: ogni volto di uomo e di donna diventa un tratto della geografia di Dio! Nella Trasfigurazione di Gesù la realtà divina rivela l’autentica forma umana anticipando la realtà escatologica della resurrezione. Sul monte Tabor il Maestro fa intravedere ai tre discepoli quale meta sta al termine del cammino su cui li accompagna: il compimento della forma originale perduta, ma ora in Cristo possibile a ritrovarsi perché da Lui ridonata.  Nella Trasfigurazione si incontrano in anticipo incarnazione e resurrezione: assunta nell’incarnazione la forma umana, ora Gesù fa vedere come nella sua umanità si nasconda e risieda tutto il mistero e la pienezza di Dio e rivelando nella carne la Sua divinità fa vedere la vocazione alla santità per ogni uomo.

Sul Tabor è restituita la forma umana rubata nel giardino dell’Eden: Dio torna a passeggiare con Adamo. E se è stato Adamo a nascondersi e Dio a cercarlo, ora Dio rompe i veli, si lascia cercare e trovare. Il Mistero si apre e l’umanità entra dentro. La Trasfigurazione è inciampare nel Mistero ormai aperto di Dio, si è inclusi, ospitati, accolti. Se per Mosè valeva il detto che “nessuno può vedere Dio e restare vivo” (Es 33, 20), adesso non è più così, nell’esperienza della Trasfigurazione, nell’incontro col Figlio, Dio si denuda davanti a occhi caduchi dell’umanità, si lascia non solo incontrare, ma addirittura “vedere”: “chi vede me vede il Padre” dice Gesù (Gv 14, 9)[13].

Possiamo con orgoglio affermare che la Trasfigurazione di Gesù è il primo Illuminismo della storia umana. E’ luce del cuore che allarga anche gli orizzonti della ragione. E’ l’estasi del pensiero, tant’è che Pietro non capisce più niente: preso dall’entusiasmo e abbagliato dalla bellezza propone di fare tre capanne. La Trasfigurazione è il ritrovamento della forma perduta non semplice passaggio da una forma a un’altra forma. Luca sottolinea che durante la Trasfigurazione Gesù parlava del suo esodo: si tratta della parola chiave, del segreto per trasfigurare, ossia fare l’esperienza dell’esodo, ed esodo significa per i discepoli di Cristo passare e fare Pasqua. Senza l’esperienza pasquale, che fa passare dalla situazione di morte (perdita della forma) a quella di resurrezione (restituzione della immagine e somiglianza con Dio) non c’è ritorno alla forma delle origini, alla verità e bellezza immaginata dal Creatore per le sue creature! Trasfigurare è tornare alla forma-immagine che Dio ha segnato nel segreto della natura umana. Tale ritorno-esodo implica tre passaggi: aver memoria da dove veniamo, riconoscere ciò che siamo e avviarci verso ciò per cui siamo stati fatti. Gesù trasfigurandosi davanti agli occhi di Pietro, Giovanni e Giacomo ha voluto far capire loro da dove veniva, chi era e verso dove stava andando. E con Lui, ha voluto rivelare a noi attraverso di loro da dove veniamo, chi siamo e verso dove siamo chiamati a incamminarci. Trasfigurare è dunque percorrere la via dell’esodo e fare Pasqua.

 

  1. La dinamica della trasfigurazione: essenziale è contemplare

Trasfigurandosi, Gesù trasfigura ogni suo discepolo ed attraverso la loro missione e testimonianza fermenta la trasformazione dell’intera umanità e creazione (Rm 8, 22). Nella Sua Trasfigurazione risiede la radice del cambiamento e redenzione dell’umanità e del creato, dell’intera biosfera, come direbbe Theilhard de Chardin.

L’evangelista Luca, a differenza di Matteo e Marco che sottolineano aspetti di geografia fisica (Gesù condusse i discepoli in disparte su un alto monte), aggiunge la motivazione: salì sul monte a pregare.  La Trasfigurazione di Gesù comincia da una intenzione di “ritiro” in solitudine, su un monte per pregare, la Trasfigurazione comincia dalla preghiera e dalle condizioni proprie della preghiera secondo Gesù. Sono le indicazioni spiegate sul monte delle Beatitudini: quando preghi entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo che è nel segreto (Mt 6, 6). Sul monte Tabor è guardando il Padre che Gesù si trasfigura: nel Padre Gesù si perde e si ritrova rendendo visibile la sua gloria (Lc 9, 32). E’ l’esplodere del dialogo trinitario che riempie di una luminosità che non ha parole per essere detta e che nessuno può catturare. E’ una frattura nel tempo che ridà spazio all’eternità.

La Trasfigurazione comincia dalla contemplazione, non c’è Trasfigurazione senza contemplazione del mistero, senza la forza, la dunamis, la dinamica che sprigiona incontenibile dalla preghiera. E’ solo il Mistero in grado di trasfigurare la persona nel momento in cui lo contempla.  Quante domande possono sorgere difronte alla verità della preghiera: quale tipo di contemplazione vivo ogni giorno? Che cosa guardo con gli occhi e col cuore? Quando conobbi il grande mosaicista P. Marek Rupnik, mi fece una confidenza: “sono più di vent’anni che non guardo la televisione” – mi disse – “come potrei creare arte se i miei occhi non si fermano solo sul bello!”[14]. Sì l’uomo è ciò che guarda, perché viene modificato da ciò su cui posa i suoi occhi. E gli occhi sono la lampada del corpo

“La lampada del corpo è l’occhio; perciò se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso; ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!” (Mt 6, 22-23).

La contemplazione è già di per sé una Trasfigurazione, come accadde a Mosè quando scendendo dal monte Sinai non si accorse che aveva il viso pieno di luce: “quando Mosè scese dal monte Sinai – le due tavole della Testimonianza si trovavano nelle mani di Mosè mentre egli scendeva dal monte – non sapeva che la pelle del suo viso era divenuta raggiante, perché aveva conversato con Lui”; era stato quaranta giorni e quaranta notti col Signore (Es 34, 28-29).

L’esperienza del Tabor ci ammonisce che, nonostante la buona volontà e la ricerca razionale di soluzioni, non possiamo trasformare il mondo fuori di noi se prima non trasformiamo il mondo che è dentro di noi; se prima non permettiamo alla forza – dunamis – dello Spirito di trasformarci interiormente.

La contemplazione è la madre di tutte le trasfigurazioni: di me, della mia gente, del mio ambiente, della mia storia, del mio mondo e mi rende capace di passare dall’io al noi, dal mio al nostro trasformando occhi e cuori, rendendoli capaci di vedere e sentire la bellezza e il calore delle Beatitudini (Mt 5, 3-12)

  1. Lo scendere a valle: realismo della missione

La Trasfigurazione ha una finalità espansiva, diventa una forza centrifuga che spinge a collaborare alla trasfigurazione di quanto e quanti si incontrano: se è autentica diventa immediatamente contagiosa ed espansiva; non si ferma in disparte sul monte, ma obbliga a scendere[15], anche se il fascino di quel particolare momento sembra scomparire. Pietro è una tentazione per Gesù quando dice “Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia”. E’ comprensibile il sentimento e la proposta di Pietro, perché scendere a valle, tra le cose umane e nel turbinio della folla, quando si ha toccato Dio con gli occhi e con il cuore? quando si è sentita la voce che diceva: “questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!”? Pietro, Giovanni e Giacomo stavano sperimentando la tentazione più grande: spiritualizzare la fede, disincarnare il Vangelo per goderlo privatamente. Non si può assecondare tale tentazione, Gesù sa che il Tabor è solo una tappa che lo porterà verso Gerusalemme, e su un altro monte: il Golgota, dove si pianta la Croce e si “sfigura” il volto di sangue fino a dare l’ultimo respiro. Gesù lo sa e spinge i suoi a scendere a valle senza paura ed a prendere “la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme” (Lc 9, 51). Mai separare le tre montagne del Vangelo: il Tabor dal Golgota e entrambi dal Monte delle Beatitudini!

Nell’ultimo libro di Ernesto Olivero, scritto durante la pandemia, si legge questa affermazione: “Sul monte non si sale per star soli. Sul monte si sale per scendere, per vivere nel basso delle giornate il dono della trasfigurazione”[16]. Scendere dal monte non è un tornare tra il peso delle giornate delusi da una gioia intravista, ma svanita; scendere dal monte è assumere di persona la sfida di diventare costruttori di gioia per tutti, portare il giogo dolce e il leggero peso dell’evangelizzazione. (Mt 11, 30). Ha ragione quindi Chiara Amirante, fondatrice di Nuovi Orizzonti, quando afferma: impegnati ad eliminare tutta quella sofferenza che dipende molto di più da te, dalla tua modalità di reagire alle persone e alle situazioni, che da eventi esterni. Vivi al meglio tutta quella sofferenza che non puoi in alcun modo evitare, cerca di darle un senso perché ogni difficoltà, ogni croce, possa trasformarsi in una nuova importante opportunità!”. Solo così il Gaudio del Vangelo trasborda la semplice e a volte banale emozione d’allegria e diventa impegno da assumersi quotidianamente nel mezzo della gente. Nessuno, però, sarebbe in grado di assumersi questo impegno se prima non sperimenta la bellezza della Trasfigurazione regalatagli dal frequentare Gesù nella preghiera contemplante (Gv 15, 9-17).

Scendere a valle significa uscire dai luoghi chiusi di un sacro che non ha la capacità di parlare all’uomo e al mondo. Scendere a valle per abitare i luoghi della storia, i luoghi nuovi e poco sacri del nostro tempo e delle nostre città ed abitarli formati dall’incontro con Cristo che ci ha trasfigurati con l’esperienza della sua bellezza e gioia.

Perché il nostro operare come Chiesa e semplici discepoli sia conforme all’annuncio evangelico e non assimilabile ad una Onlus sociale, è indispensabile il “salire” sul monte (= iniziare un processo di cambiamento, di generazione del seme del Vangelo in noi) e di “permanere nella contemplazione”. I primi due verbi, salire e contemplare, sono la condizione perché il terzo, scendere, dica l’opera secondo il Vangelo e la renda la Chiesa trasparenza del Cristo Trasfigurato. E’ solo la fede che salva, in quanto dono gratuito di Dio, ma sono le opere che evangelizzano e diffondono la missione generando nel mondo il Regno di Dio, collaborando così a trasfigurare Territorio e Popolo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Seconda parte

 

Alcuni settori dove il Territorio e il Popolo dell’amato Gargano gridano il bisogno di TRASFIGURAZIONE

 

Come già ho fatto nella mia prima Lettera pastorale procedo individuando concretamente alcuni settori non solo di riflessione, ma anche d’intervento, alla luce della Parola ascoltata e meditata e di quanto emerso nel lavoro dallo stile sinodale intrapreso a partire dal mese di febbraio. Si tratta, in quanto discepoli-missionari del Signore, di assumere lo stile di Gesù: occorre imparare a volgere lo sguardo verso il Territorio e il Popolo che lo abita filtrandolo attraverso la luce del Vangelo. È quanto consiglia di fare Papa Francesco ai predicatori, ma che vale per ogni battezzato: diventa missionario se sa porre occhi e orecchi verso la Parola e verso il Popolo santo di Dio, se sa essere contemplativo della Parola e contemplativo del Popolo[17].

Il magistero di Papa Francesco negli ultimi anni ha strutturato un percorso che lega strettamente tra loro due Encicliche la Laudato Si’ del 2015 e la Fratelli Tutti del 2020 è con l’Esortazione apostolica Querida Amazonia frutto del Sinodo del 2019. Nelle intenzioni del Papa si tratta di tre documenti che vanno ad arricchire il magistero sociale della Chiesa nel contesto mondiale della globalizzazione, diventata globalizzazione dello scarto, difesa degli interessi di parte e di chi possiede a scapito dei poveri e degli ultimi; inoltre su questa già deleteria situazione si è improvvisamente abbattuta la pandemia da Covid-19.

Credo sia importate ribadire brevemente alcuni principi e lo spirito che anima questi tre documenti pontifici per poter meglio visitare i settori che interessano il Territorio ed il Popolo del nostro Gargano, bisognoso di Trasfigurazione.

 

L’Enciclica Laudato Si ruota su due cardini: il principio dell’ecologia integrale e la convinzione che nel mondo tutto è intimamente connesso. Tutti i documenti di Francesco che seguiranno alla Laudato Si’ non faranno altro che fondarsi e approfondire il principio e la convinzione appena ricordati: “credo che Francesco (d’Assisi) sia l’esempio per eccellenza della cura per ciò che è debole e di una ecologia integrale, vissuta con gioia e autenticità … in lui si riscontra come siano inseparabili la preoccupazione per la natura, la giustizia verso i poveri, l’impegno nella società e la pace interiore (LS n 10). … alcuni assi portanti che attraversano tutta l’enciclica: l’intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta; la convinzione che tutto nel mondo è intimamente connesso; la critica al nuovo paradigma e alle forme di potere che derivano dalla tecnologia; l’invito a cercare altri modi di intendere l’economia e il progresso; il valore proprio di ogni creatura; il senso umano dell’ecologia; la grave responsabilità della politica internazionale e locale; la cultura dello scarto e la proposta di un nuovo stile di vita” (LS n 16).

 

Querida Amazonia organizza quattro dimensioni relazionali fondamentali secondo un ordine esistenziale e presentandole come sogni per un territorio particolare, l’Amazonia. Dopo Querida Amazonia l’immagine del “sogno” ritornerà con continuità in tutti gli scritti e le “esternazioni” del Pontefice. “Sogno un’Amazzonia (ma ad Amazzonia può essere sostituito sia il Mondo intero, sia una sua porzione particolare: es il Gargano) che lotti per i diritti dei più poveri, dei popoli originari, degli ultimi, dove la loro voce sia ascoltata e la loro dignità sia promossa.

Sogno un’Amazzonia che difenda la ricchezza culturale che la distingue, dove risplende in forme tanto varie la bellezza umana.

Sogno un’Amazzonia che custodisca gelosamente l’irresistibile bellezza naturale che l’adorna, la vita traboccante che riempie i suoi fiumi e le sue foreste.

Sogno comunità cristiane capaci di impegnarsi e incarnarsi in Amazzonia, fino al punto di donare alla Chiesa nuovi volti con tratti amazzonici” (QA n 7).

 

Infine l’Enciclica Fratelli Tutti intende dar ragione della fraternità universale come condizione dell’amicizia e della pace sociale tanto in forma sincronica (nell’oggi), che in quella diacronica (nel dovere verso le generazioni future). La motivazione etica è che le scelte non possono guardare solo al presente, all’adesso, ma vanno fatte partendo dal futuro, che ha il volto delle generazioni che verranno dopo di noi ed alle quali siamo chiamati a passare l’eredità sia del Pianeta-Casa comune, sia della Cultura-Popoli in relazione. Sono da portare a memoria e nel cuore le seguenti due affermazioni: “l’individualismo non ci rende più liberi, più uguali, più fratelli. La mera somma degli interessi individuali non è in grado di generare un mondo migliore per tutta l’umanità. Neppure può preservarci da tanti mali che diventano sempre più globali. Ma l’individualismo radicale è il virus più difficile da sconfiggere. Inganna. Ci fa credere che tutto consiste nel dare briglia sciolta alle proprie ambizioni, come se accumulando ambizioni e sicurezze individuali potessimo costruire il bene comune” (FT n 105).  “Come credenti pensiamo che, senza un’apertura al Padre di tutti, non ci possono essere ragioni solide e stabili per l’appello alla fraternità … perché la ragione da sola è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini e stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità [18].

 

Le due encicliche e l’esortazione costituiscono come un percorso di pensiero magisteriale quinquennale che va da Francesco (d’Assisi) a Francesco. Dall’a quo del Francesco del Cantico delle Creature (LS – il Francesco poeta … poeta della Terra, l’interprete del senso della Creazione!), all’ad quem del Francesco della Fraternità concreta e universale (FT – il Francesco delle Ammonizioni, il Riformatore/ricostruttore della Chiesa: chiamato a ricostruire il Tempio/Chiesa, che getta ponti, abbatte mura, rompe catene, semina riconciliazione … che riconosce il Cristo Crocifisso identificandosi nei lebbrosi e facendosi povero, ed il Cristo Risorto fondando la fratellanza, facendosi fratello di tutti, che riconosce in ogni volto il volto del suo Signore), passando attraverso il per quem della contemplazione estatica della “bellezza universale” resa concreta in un preciso particolare che si incarna sempre in un Territorio e Popolo.

 

Come Chiesa di Manfredonia-Vieste-San Giovanni Rotondo abbiamo impostato le linee pastorali per l’anno 2020-2021 guardando ai tre documenti pontifici come strade maestre del nostro percorso e adattando i sogni di Papa Francesco al nostro Amato Gargano. E’ seguendo questi fari del magistero pontificio e i verbi del Congresso nazionale di Firenze che il nostro percorso sinodale può continuare e portare frutto. Importante è che camminiamo insieme coesi e senza paure del futuro e nostalgie di un passato che non ritorna. Non basta ripetere. Ripetere non è fare memoria, non è memoria. Bisogna essere uomini e persone del futuro: per muovere la storia occorre sia la capacità di guardare al passato, e ovviamente di guardare con intelligenza e autentica memoria, sia la capacità di pensare a partire dal futuro. Impegniamoci allora a guardare al passato, ma iniziamo a pensare a partire dal futuro e collaboreremo a trasfigurare Territorio e Popolo del Gargano.

 

  1. Trasfigurare l’ECONOMIA

 

  • La dottrina sociale della Chiesa e la diaconia del lavoro

 

La pandemia ha rimesso al centro della nostra attenzione la questione del lavoro come uno dei problemi cruciali per gli equilibri sociali e come uno dei temi centrali della stessa opera di evangelizzazione, che resta muta e insignificante se non è anche promozione umana. Evangelizzazione e promozione umana fu il grido profetico del primo Convegno ecclesiale nazionale a Roma nel 1976.   Il tema del lavoro va strettamente legato a quello del fare impresa e della sana imprenditoria: si tratta del primo dovere verso le nuove generazioni e del loro futuro, oltre a quello dell’ambiente stesso. La mancanza di lavoro è forse la piaga sociale più tragica del nostro territorio che fa da miccia alle altre piaghe collegate. Le cito: il lavoro nero e sottopagato, il posto di lavoro comprato e mercanteggiato, il lavoro come ricatto elettorale di una apolitica clientelare, il caporalato e le nuove forme di schiavitù che colpiscono gli emigrati, ma che stanno infettando anche molti italiani.

Quante famiglie e singoli cittadini, soprattutto giovani o persone cadute nella disoccupazione ormai da “adulti”, subiscono contraccolpi tremendi da questa logica che, se agli occhi di Dio grida e si fa invocazione per una maggiore giustizia, dall’altro interpella le nostre coscienze di credenti che ispirano le proprie scelte alla logica del Vangelo o di onesti cittadini che credono nei valori della Costituzione, che mette al primo posto proprio il lavoro (art. 1).

Ribadisco quanto già scritto due anni fa: certo non tocca alla Chiesa dare ricette o fare analisi, né sostituirsi alla politica, alla classe imprenditoriale, ai sindacati o agli operatori economici, ma è compito di tutti, quindi anche dei credenti, vigilare a che l’economia sia al servizio della comunità sociale, delle famiglie e non del profitto di pochi. Vigilare che non ci siano fenomeni di corruzione o di infiltrazioni mafiose sia nei settori produttivi che nelle istituzioni politiche e di rappresentanza. Fedele alla Dottrina sociale della Chiesa è mio dovere di vescovo ricordare innanzitutto a chi crede, ma anche a chi intende collaborare al bene comune, che l’economia è la scienza a cui compete la ricerca e distribuzione dei mezzi e che come tale deve necessariamente interfacciarsi con l’etica che è la scienza dei fini. Pertanto è la seconda (= l’etica) che deve guidare e dettare l’agenda delle priorità ed urgenze non la prima (= l’economia) che ha funzione di strumento. La sfida è educare i giovani ad una mentalità imprenditoriale e gli operatori del settore a maturare un progetto di impresa intesa come ricchezza non solo per i proprietari, ma per l’intero contesto territoriale e la società civile. Definirei quanto ho espresso come educazione alla diaconia del lavoro[19].

Pertanto trasfigurare l’economia significa cominciare a diffondere un nuovo modello di impresa ispirato ai principi fondamentali della Dottrina sociale della Chiesa che ancora stenta a generare buone prassi. Non possiamo riempirci la bocca di vocaboli altisonanti, come “persona”, “dignità”, “diritti”, “bene comune”, e poi facciamo finta di non vedere e di non sentire quanto avviene nel nostro territorio. Nessuno, credente o laico, ha il diritto di tapparsi le orecchie al grido dei nuovi poveri, di coloro che escono dal circuito lavorativo e produttivo, o peggio non sono ancora riusciti a metterci piede. Nessuno ha il diritto, come il sacerdote o il levita (= persona di Chiesa o cittadino) di cambiare strada e volgere gli occhi altrove (cf Lc 10, 30-36).

Come Chiesa locale, in sinergia con le Istituzioni civili e con le agenzie formative, siamo chiamati a svolgere una continua opera di educazione e di formazione delle coscienze per far maturare in tutti un maggiore senso di cooperazione sociale e di condivisione, di partecipazione e di promozione. Il tutto da realizzare nel contesto del nostro amato Gargano le cui risorse sono in primo luogo le persone, il loro lavoro, la terra, il mare, il verde, l’ecosistema naturalistico, il patrimonio culturale e artistico che ci viene da tutti invidiato come unico e affascinante.

La Trasfigurazione del tessuto economico locale deve essere attuata nel rispetto dei principi dell’ecologia integrale offerti da Papa Francesco nella sua Laudato Si’. Spero che l’Enciclica sia stata letta e studiata, e che se ciò non è avvenuto, auguro venga presentata e meditata in tutte le parrocchie, associazioni e movimenti ecclesiali al più presto, per tradurla in scelte sia personali che comunitarie concrete ed efficaci. Solo se fedeli al criterio dell’ecologia integrale potremo realizzare un sano sviluppo economico basato sul corretto equilibrio tra lavoro, impresa, salute e ambiente.

 

  • Il Territorio garganico e la parabola dei vignaiuoli Mt 20, 1-16

 

Nella lettera Il Seminatore Uscì a Seminare avevo espresso il seguente auspicio: “nei prossimi mesi mi piacerebbe incontrare gli imprenditori e gli operatori del commercio, artigianato e turismo, come pure i professionisti dei vari settori, per farmi spiegare le difficoltà che provano e le numerose peripezie che devono affrontare per mantenere in vita le proprie attività. Vorrei incontrarli anche per stimolarli a non farsi sedurre da una mentalità puramente speculativa o finanziaria legata alla ricerca spasmodica del proprio profitto. Urge sempre più adottare un codice etico, ispirato ai valori del Vangelo e della Costituzione italiana, che impone il rispetto della dignità del lavoratore, della giustizia, della equità, della solidarietà e del bene comune”[20]. La pandemia ha reso impossibile il compiersi di tale auspicio, ma non mi ha impedito di mettermi in contatto con agenzie e persone che seguono e studiano la situazione socio economica del nostro Territorio cercando di dare indicazioni di sano futuro. Ho letto e mi sono interfacciato attraverso scambi di email. Quanto segue in questo paragrafo è frutto di tale lettura e dialogo.

Il territorio garganico e della Capitanata ha sempre sofferto della mancanza di lavoro e, la parabola dei lavoratori della vigna riportata da Matteo 20, 1-16 è più che attuale. Le “piazze” sono piene di giovani, donne e uomini alla ricerca di un lavoro. Il tessuto produttivo è costituito per lo più da piccole imprese, tutte familiari, presenti nel settore dell’agricoltura, del commercio e dei servizi, poco innovative e per niente attrattive per giovani talenti istruiti. A questa tipologia si aggiunge l’assenza a collaborare tra piccole imprese per cogliere le maggiori opportunità offerte dalla cooperazione.

La mancanza di lavoro è l’effetto di una assenza totale di programmazione che metta al centro la costruzione di un Modello di Sviluppo Economico sostenibile, inclusivo e tecnologicamente adeguato, centrato sulle risorse materiali e immateriali esistenti sul territorio: l’economia del mare, l’agricoltura e i servizi alla persona, applicando a questi settori le più moderne tecnologie digitali e ambientali. Si è supposto che la mancanza di lavoro si potesse risolvere con l’emigrazione di massa o con politiche economiche calate dall’alto quali le cattedrali nel deserto (Enichem) degli anni 80 e con strumenti quali il Contratto d’area degli anni 90. Entrambi i progetti sono falliti poiché non avevano nulla a che fare con le peculiarità naturali del territorio: invece di risolvere il problema hanno aggiunto ulteriore sofferenza e malattie a causa dell’inquinamento prodotto e dei fallimenti successivi. Sviluppo economico e vocazione territoriale sono due facce della stessa medaglia, che vanno progettate e governate da Istituzioni solide, da un tessuto produttivo responsabile e da una comunità coesa. La scienza economica dimostra che la condizione necessaria affinché un territorio o una città possa intraprendere un percorso di crescita, che crei benessere diffuso è l’esistenza di un corretto equilibrio tra tre pilastri della società: politica, economia e comunità. Se ciò non avviene ci troviamo di fronte a società disfunzionali, è esattamente quanto avvenuto nel nostro ambiente.

La debolezza cronica delle Istituzioni e la fragilità del tessuto produttivo, imbevuto quest’ultimo anche da un familismo amorale, oltre che da rischi di infiltrazioni mafiose, ha indebolito il pilastro comunitario facendolo precipitare in uno stato di rassegnazione e di apatia. Gli effetti devastanti di questa triplice fragilità istituzionale, economica e sociale, sono tutti nei numeri della disoccupazione crescente, dei livelli di povertà assoluta in aumento, delle disuguaglianze di reddito, di ricchezza, di opportunità e dell’emigrazione del miglior capitale umano con riflessi sulle dinamiche demografiche tutte regressive. La debolezza dei tre pilastri ha favorito fenomeni di criminalità organizzata e corruzione che hanno invaso l’economia, condizionato le scelte della politica e dell’apparato pubblico, aggravando ulteriormente la situazione economica.

Come uscire da questo circolo vizioso che impedisce al territorio garganico di trovare un sentiero di sviluppo e di crescita equilibrato e di maggior benessere per tutti e non solo per alcuni?

Una soluzione necessaria sta nella qualità e maturità della classe dirigente pubblica e privata. Viviamo in un’epoca in cui la conoscenza determina il futuro dei popoli e delle nazioni: pertanto, bisogna agire sull’istruzione, sulla formazione e sul capitale civico. Trasfigurare l’economia significa trasfigurare la politica e le istituzioni attraverso una nuova classe dirigente che guidi i cambiamenti epocali in evoluzione per coglierne le opportunità e attenuare le possibili minacce. Siamo nella società della conoscenza e della complessità e per governarla a favore di tutti è necessario che alla guida delle Istituzioni pubbliche e private ci siano donne e uomini di alta moralità, di qualificate competenze e con senso di responsabilità sociale.

Lo sviluppo dell’economia richiede insieme a un buon governo un cambio di paradigma economico, sociale e culturale, assumendo la consapevolezza che il vero progresso e il benessere dipendono da tutti i cittadini che reagiscono responsabilmente ai continui stravolgimenti tecnologici globali. Bisogna rimuovere con forza e convinzione le incertezze e la sfiducia che si sono diffuse a tutti i livelli. Il passo fondamentale è quello di passare da un equilibrio della sfiducia e della rassegnazione ad un equilibrio della fiducia e della condivisione. La ricchezza diffusa di un territorio si misura sulle capacità della popolazione di apprendere e di applicare le sue conoscenze ai processi di produzione e di consumo.  Le Istituzioni, il tessuto economico e la comunità devo insieme ritrovare il loro rapporto profondo ed equilibrato impegnandosi per il bene comune. La rinascita economica e lo sviluppo hanno come precondizione necessaria il possesso del senso morale e civico diffuso a cui si aggiungono le conoscenze e le competenze. Sono valori che devono risiedere in tutti i cittadini, secondo le attitudini proprie di ciascuno.

L’apatia collettiva porta regresso economico e povertà diffusa. Bisogna trasfigurare l’attuale rassegnazione generalizzata in fiducia condivisa e, affinché ciò avvenga è indispensabile avere una classe dirigente che possieda la visione del futuro partendo da quello che si è oggi e delle risorse e riserve a disposizione; una classe dirigente che possieda un Modello di Sviluppo Economico consono col territorio e la popolazione e che conosca il modo con cui attuarlo.

La robustezza di un’economia dipende principalmente dal suo capitale sociale e civico e dalle connessioni tra individui e reti sociali. Lo spirito comunitario e civico produce capitale sociale in dosi massicce necessario a far crescere il tessuto produttivo: è lo spirito comunitario che va ritrovato e deve essere favorito dalla classe dirigente eticamente formata e competente. Il declino generale è cominciato quando alla guida delle istituzioni si sono posti opportunisti, faccendieri, persone incompetenti e spesso corruttori e concussori. Si continuerà a vedere sofferenze ed emarginazione se chi dovrà decidere e immaginare un futuro nuovo di crescita e di trasformazioni profonde non è all’altezza della complessità di un mondo sempre più integrato, globalizzato e fortemente competitivo.

E’, necessario ritrovare lo stato d’animo di vivere con la speranza e la certezza che si può progredire e ricominciare richiamando tutti al senso di responsabilità del fare. Si vince se si è consapevoli che solo insieme si può fare bene e trovare soluzioni ai problemi che affliggono. Quando una comunità è troppo debole e divisa allora prevale l’economia clientelare, amorale, la corruzione e la criminalità.

Siamo in un’epoca che ha bisogno di processi e decisioni condivise anche in economia, di sforzi cooperativi. Si può verosimilmente sostenere che gran parte del sottosviluppo del nostro territorio è spiegabile dalla mancanza di fiducia reciproca. Lo sviluppo economico richiede un elevato livello di cooperazione e di conoscenza, un profondo senso di fiducia tra gli agenti economici e non rivalità sterili e scorrettezze reciproche che finiscono col danneggiare tutti.

La fiducia precede il Prodotto Interno Lordo e lo determina con le opportune conoscenze. Ricostruire la fiducia è la chiave di volta per la rinascita non solo economica, ma anche sociale. La trasfigurazione economica è trasfigurazione culturale declinata in una buona governance pubblica, in una comunità attiva e partecipativa, in interazioni sociali di fiducia, in etica diffusa, in una rete di solidarietà sociale, in istituzioni formative di qualità.

La conoscenza oggi è diventata un bene pubblico da mettere a disposizione della collettività, il nostro territorio deve andare alla ricerca di persone che possiedono conoscenze e siano capaci di impiegarle in una nuova visione che porti a sviluppare le risorse del mare, dell’agricoltura, dell’ambiente, del turismo e dei servizi alla persona.

Con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che destina al nostro Paese più di 240 mld nei prossimi cinque anni, di cui la metà al Mezzogiorno, anche il Gargano e la Capitanata sono davanti ad un’occasione epocale per uscire dalla situazione drammatica in cui si trovano, rilanciando il territorio verso uno sviluppo sostenibile e inclusivo, che mette al centro l’ambiente, che punta sull’economia circolare, del mare, agricoltura e turismo, che investe in istruzione, formazione e tecnologie digitali al servizio del bene pubblico.

Se perderemo ancora una volta questa storica opportunità, allora si che saremo condannati ad avere tassi di disoccupazione del 40%, esclusione totale di giovani e donne dal mercato del lavoro, livelli di povertà assoluta superiori al 30% della popolazione complessiva, disuguaglianze di reddito, di ricchezza e di opportunità sempre crescenti dove il 5% della popolazione detiene più dell’80% della ricchezza complessiva e, il “crimine” più grave che continuerà a perpetuarsi sarà quello che il Gargano continuerà a svuotarsi ulteriormente del capitale umano, perderà la sua migliore gioventù ancora una volta costretta a cercare futuro altrove[21].

Mai come ora abbiamo bisogno di quel Padrone della vigna che per ben cinque volte in una sola giornata va in piazza a cercare uomini e donne da far lavorare, per dare loro dignità, per produrre ricchezza buona. Quel padrone oggi è lo Stato e tutte le Istituzioni che devono coordinarsi per creare le condizioni affinché tutti abbiano la possibilità di costruire il proprio futuro con dignità.  Con la visione dell’economia e del mondo centrata sul bene comune e sui valori del Vangelo possiamo essere certi che il Territorio e il Popolo dell’amato Gargano avranno davanti un futuro di Trasfigurazione.

 

  1. Trasfigurare la SOCIETA’ e la CITTA’

 

Cari fratelli e sorelle in Cristo ed amati cittadini,

 

inizio questo paragrafo con una citazione di Giorgio La Pira, deputato alla Costituente e sindaco di Firenze dal 1951 al 1957 e dal 1961 al 1965: “Una città non può essere amministrata e basta.  Non è niente amministrare una città. Bisogna darle un compito. Altrimenti muore”. Sì perché ognuno di noi è legato alla propria città, ha radici nella propria terra: anche attraverso la realtà sociale si vive il mistero dell’Incarnazione. Ma tale realtà sociale è sempre mutevole, a ritmi diversi, ed oggi ha assunto velocità di cambiamento e tratti di novità impensabili e non prevedibili solo pochi decenni fa.

Come cristiani siamo chiamati ad essere sale, luce e lievito per l’intera pasta della vita sociale e cittadina (cf Mt 5, 13ss e 13, 33ss). Le parrocchie devono essere luoghi dove si sperimenta e costruisce comunità e fraternità, e le comunità religiose “scuole e case di comunione” come le definì Papa Giovanni Paolo II nella Vita Consecrata, ed i Movimenti ed Associazioni fermenti di novità e prassi evangeliche nel tessuto sociale secondo la loro vocazione laicale. Nessuna delle due modalità di testimonianza cristiana dentro la città e sul territorio devono restare chiuse nei recinti delle proprie celebrazioni o finalità tanto di annuncio che espressione di carità e impegno nel tessuto sociale. E’ importante curare il linguaggio per non rischiare che parlando si diventi incomprensibili alle nuove generazioni ed alla cultura vigente. Si tratta quasi di “imparare la lingua della città post-moderna”, per evitare di proporre percorsi a cui nessuno si sente interpellato o che ha difficoltà ad intendere. Il dovere evangelico e metodo pastorale di USCIRE corrisponde ad uno sforzo per comprendere il “nuovo linguaggio” che oramai coinvolge la maggioranza della cittadinanza e cercare di intercettare, nei quartieri e per le strade, le nuove domande di legami tra persone e di amicizia sociale. Si tratta di imparare ad ascoltare le nuove domande che la gente si sta facendo, prima di dare risposte a domande che più nessuno avverte. Si tratta di un grande sforzo per “farsi prossimo” alla società e città che ormai ha tutte le caratteristiche del post-cristianesimo, oltre che dell’intercultura e della globalizzazione.

La Chiesa, che è Madre, non lascia i suoi figli e figlie senza strumenti per interpretare e percorrere senza paure e da protagonisti le strade delle città di oggi. Oltre alla grande Costituzione Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II, vero anticipo profetico della nuova epoca che si stava profilando, abbiamo a disposizione l’Enciclica di Papa Francesco Fratelli Tutti, nata e pubblicata in tempo di pandemia, ma con gli occhi, puri e critici al contempo, sul futuro che ci aspetta e sulla mondialità, diventata qualità comune ovunque l’uomo oggi vive. Non abbiamo paura a farci guidare dalla Fratelli tutti. E’ il testo magisteriale da leggere e studiare, da meditare e pregare, da incarnare e contagiare se vogliamo essere veri discepoli e missionari nella nuova epoca in cui siamo entrati e molti di noi ritrovati in modo improvviso.

Perciò, in comunione col Santo Padre, chiedo a tutti i fratelli e sorelle in Cristo un cambio di marcia, che indico con espressioni che possono sapere di slogan, ma credo di facile comprensione: “più strada e meno sacrestia”; “più prossimità e meno autoreferenzialità”; “più fermento cristiano nei condomini che solo nelle sale parrocchiali”; “più contaminazioni negli impegni e luoghi sociali e meno paura di sporcarsi le mani o sbagliare”; “più forza di profezia e che parole di apologia”.

Molte città del nostro Gargano, e dell’intera Provincia di Foggia, sono state occupate da forme di gestione legate a poteri particolari, “da lupi più che da amministratori”: diversamente non si potrebbero spiegare tante situazioni di scioglimenti di amministrazioni democraticamente elette a motivo di infiltrazioni mafiose o gestioni clientelari. Situazione che ha scoraggiato e sfiduciato la popolazione rendendola come rassegnata e convinta che diventa inutile prendersi cura dello spazio pubblico, del servizio autorevole della buona politica. C’è un disinteresse a prendersi cura degli spazi pubblici, è passata l’idea che ciò che è pubblico è sì di tutti, ma proprio per tale motivo di nessuno, e tale sentimento deresponsabilizza i cittadini e li allontana dal senso del bene comune: si infiltra in modo latente la mancanza di cura della res pubblica, come se si trattasse di un comportamento legittimo e di difesa degli interessi individuali. Ci vuole una vista nuova con cui guardare le nostre città ed il territorio assegnato, per una amministrazione di vero servizio e coinvolgimento democratico e responsabile di tutti.

La Trasfigurazione deve educarci a cambiare lo sguardo ad avere occhi sani e puliti con cui guardare allo spazio ed impegno pubblico della società civile. Ce lo ricorda Papa Francesco quando scrive: “Abbiamo bisogno di riconoscere la città a partire da uno sguardo contemplativo, ossia uno sguardo di fede che scopra quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze. La presenza di Dio accompagna la ricerca sincera che persone e gruppi compiono per trovare appoggio e senso alla loro vita. Egli vive tra i cittadini promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia. Questa presenza non deve essere fabbricata, ma scoperta, svelata. Dio non si nasconde a coloro che lo cercano con cuore sincero, sebbene lo facciano a tentoni, in modo impreciso e diffuso” (EG 71). E questo è l’impegno della Chiesa ed in modo particolare dei laici battezzati, che trovano nello spessore della vita sociale, economica e politica delle città e dei territori il loro proprio terreno da fecondare e fermentare dei valori del Vangelo, espressi in modo autentico nella Dottrina sociale della Chiesa e nella Costituzione conciliare Gaudium et Spes. La Chiesa Magistero e la Chiesa Popolo santo di Dio immerso nel mondo non ha diritto a parlare alla società “dal pulpito o dagli amboni” se non è disposta a percorrere con la gente di oggi i sentieri tortuosi della vita quotidiana, fino a dare la vita per essa.

Dopo questi lunghi mesi di pandemia, la gente è smarrita e disorientata: sembra non creda più né alla politica né ai politici che la incarnano, e sembra fidarsi sempre meno della Chiesa, se non per la ricerca di aiuti momentanei. Si affievoliscono i legami della prossimità; dopo aver delegato con troppa facilità, come spettatore indifferente e apatico, si rimane alla finestra a guardare, presi dal solo bisogno di coltivare il proprio spazio privato, oppure ci si piange addosso perché le cose poi non vanno bene. Troppo tempo passato sul web, pur motivato da necessità, ha fatto perdere il contatto con la realtà e la sua fisicità, che ora sta tornando con tutta la sua complessità e drammaticità. E’ il momento allora del coraggio di rompere gli schemi e gli indugi, di prendere l’iniziativa e di esporsi e rianimare il tessuto sociale che a vario livello langue e ristagna. Il nostro amato Gargano è alla ricerca di costruttori di una sana socialità, di architetti di cittadinanza, che sappiano far collaborare nella ricerca di un’armonia, anche dialettica, le varie componenti della società civile: associazioni, istituzioni scolastiche e formative, parrocchie, luoghi del tempo libero e di aggregazioni spontanee, l’articolato mondo del volontariato. Solo la collaborazione ed alleanza tra Istituzioni presenti sarà in grado di spezzare il clima di indifferenza e di scarto che mina la società civile del territorio garganico.

Come cristiani del XXI secolo dobbiamo prendere coscienza che oggi il primo avversario non è l’ateismo, ma in primo luogo l’individualismo, il quale “non ci rende più liberi, più uguali, più fratelli” (FT, 105) e in secondo luogo quell’accidia egoista che paralizza (EG, 81). Forse è proprio l’individualismo la forma più raccapricciante di ateismo postmoderno. E, allora, facciamo nostro il motto che il Papa ci ha consegnato nella Evangelium gaudium: “Non facciamoci rubare la comunità” (EG 92).

Evangelizzare con attenzione alla dottrina sociale della Chiesa aiuterà a riaccendere il senso di appartenenza alla città come comunità che cresce col contributo di tutti: risvegliamo le città risvegliando le coscienze addormentate e spaventate. Torniamo ad educare i giovani a sapersi prendere cura del bene comune. E’ urgente profezia riuscire a trasformare il messaggio evangelico in un’etica politica capace di riaccendere la passione per il senso civico, per il buono-bello-vero-giusto, sì da arginare quell’analfabetismo sociale e politico che ci rende preda del populismo, dell’individualismo, quando non addirittura del fondamentalismo, atteggiamenti che portano a sottomettere le città ed i territori, tramite la paura, la divisione e l’omertà alle locali organizzazioni criminali. Dobbiamo cominciare a confessare nelle liturgie anche i peccati sociali, quali l’apatia, la ricerca spasmodica di un benessere socio-economico che sia solo per pochi e per gli stessi.  I peccati contro la fraternità offendono la nostra dignità di figli dello stesso Padre.

Dinnanzi a uno scenario socio politico dove la credibilità dell’azione non convince la popolazione, specie i giovani che, seppur definiti “la speranza del domani e la primavera della società e della Chiesa”, vedono denigrato e calpestato dalla retorica dell’inganno il loro presente e futuro, bisogna accantonare le diatribe fratricide. Bisogna impedire che chi urla di più, chi parla alle pance e non alle menti e ai cuori, possa credere di avere ragione, e motivare sempre più chi sente l’amore alla Politica (con la P maiuscola), come una vera vocazione al servizio per la rinascita di un Popolo che non vuole affidare la sua sorte a chi recita un ruolo che offende la memoria dei martiri.

La buona Politica non può chiedere nessuno di piegare ginocchia e capo verso chi pensa di essere ed agire come fosse un generale che gioca con soldatini al suo servizio. La vera Politica percorre, per usare un’immagine, le mulattiere degli ultimi e dei poveri, che non vanno corrotti e umiliati offrendo un pugno di pasta al costo di un voto di scambio acquistato con arroganza e veleno nel cuore. La sana Politica richiede condivisione di un progetto di vita e di riscatto che sa e profuma di fraternità, di pace, di solidarietà. La migliore Politica è posta al servizio del bene comune, non ha disprezzo dei più deboli, non si nasconde dietro forme populistiche, sa che la società è più della somma degli individui, rispetta l’identità comune della città fatta di legami sociali e culturali[22].  Come Chiesa non dobbiamo avere paura di dire che la Politica è la forma più alta di carità, che ha bisogno di fissare lo sguardo su Colui che ha annunciato e confortato le masse assetate e affamate di giustizia con l’abbraccio disinteressato siglato dalle Beatitudini (Mt 5, 3-12). Gesù è ancora oggi l’esempio del “migliore politico”: ha siglato col suo sangue la legge dell’amore, ha detto da quale parte si schierava (degli ultimi, dei buttati fuori dalla città, da chi è abbruttito dalla vita e dagli egoismi privati e di parte), ha stilato con fierezza il programma delle “beatitudini”, la carta magna del cristianesimo e di chi, riconoscendosi rapito da un amore cosi grande, si impegna a portare in Politica il grido dei poveri, il profumo della bellezza, il calore del servizio e non l’olezzo del tornaconto di parte. Ebbene, basta ispirarsi a questi pochi versetti di Vangelo, che sanno di credibilità pura, di rispetto della dignità dell’uomo e, se credenti, anche di una “vocazione” al servizio della res pubblica, per trasfigurare la società e la città. Laici cristiani come Giorgio La Pira, Alcide de Gasperi, Aldo Moro e tanti come loro, nel silenzio della quotidianità hanno vissuto il codice politico delle “Beatitudini ”, non vendendosi a nessuno, non ponendo menzogne e inganni nel loro agire, fieri di dirsi semplicemente cristiani credibili, capaci di gesti forti e iniziative concrete che non avevano bisogno di continui proclami perché, come dice il proverbio, “ogni fiore se vero e non di plastica, ha già il suo profumo che non si vede ma si sente”. E noi, come Chiesa locale, vogliamo lasciare questa scia di profumo e di libertà dove ancora domina, con plateale indifferenza, il puzzo del compromesso che non ha nulla né di umano né di cristiano.

Concludo ribadendo quanto ho più volte ripetuto invitando a guardare con speranza e cuore puro alla politica ed alla Chiesa. Non è vero che la politica è marcia e la Chiesa è falsa … è vero piuttosto che marci sono gli uomini che usano la politica per il proprio tornaconto, e false sono le persone di Chiesa che se ne servono per sé stessi e non per il Vangelo ed il servizio del prossimo.

Impegnarsi in questo esercizio di Trasfigurazione è collaborare perché la società sia sempre più “civile” e la Chiesa più conforme al Vangelo, perché la Politica torni ad essere servizio del bene comune e la Chiesa Madre di cuori che generano relazioni d’amore[23]. In un’autentica alleanza, senza invasioni di campo reciproco, Città e Chiesa daremo il nostro contributo a trasfigurare il meraviglioso Territorio ed il glorioso Popolo che custodiamo e di cui siamo parte.

 

  1. Trasfigurare la CULTURA

 

Il Gargano è cultura nel suo essere, è un incredibile archivio geologico, un antico libro di cui abbiamo letto solo alcune pagine, le altre scritte nelle rocce, e nei paesaggi devono ancora essere lette e potranno farci conoscere e comprendere appieno la storia di questo affascinante promontorio roccioso. Per poterlo leggere dobbiamo assumere lo sguardo di Gesù, scopriremo un Gargano al di là dei suoi problemi, che pur ci sono, vedremo la ricchezza delle sue risorse, non solo come un’occasione strumentale, ma come un mistero di bellezza di cui godere. “Il mondo – e anche il Gargano – è qualcosa di più che un problema da risolvere, è un mistero gaudioso che contempliamo nella letizia e nella lode” (LS 12) … “Prestare attenzione alla bellezza e amarla ci aiuta ad uscire dal pragmatismo utilitaristico. Quando non si impara a fermarsi ad ammirare ed apprezzare il bello, non è strano che ogni cosa si trasformi in oggetto di uso e abuso senza scrupoli” (LS 215).

 

  • Trasfigurare non solo conservare la Cultura è vocazione evangelica

 

Così scriveva don Lorenzo Milani a metà anni sessanta nella Lettera ai giudici: “Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande: I CARE. E’ il motto intraducibile dei giovani americani migliori. Me ne importa, mi sta a cuore. E’ il contrario esatto del motto fascista ‘me ne frego!’”. Trasfigurare la cultura non è cosa facile, è un rischio civile, e per chi crede anche ecclesiale, da correre, affrontando le situazioni e la realtà a viso aperto e mettendoci cuore. Il motto I CARE esprime con chiarezza e incisività quanto ogni cittadino serio e credente sincero deve assumersi verso la storia e la cultura che lo ha generato e che si attende da lui un contributo di responsabilità e dignità. Sì perché la storia e la cultura va fatta camminare e va portata nel futuro con creatività generante, diversamente non sarebbe autentica “tradizione” (= transitare in avanti), ma “tradizionalismo” che mortifica e scimmiotta il passato coprendolo di cenere ed impedendogli di essere fuoco vivo ed energia per tutti.

Nel progetto o processo pastorale della diocesi abbiamo messo a tema quattro sogni, di questi il più difficile da realizzare è quello culturale: è il più delicato, richiede coraggio e capacità di rischio, perché non si adagi ad acconsentire al tradizionalismo o a ripetizione pedisseque e pigre della logica del sì e sempre fatto così, del siamo abituati e cresciuti con questa modalità di esprimere le nostre tradizioni. La cultura vissuta seguendo questa logica diventa come una fotocopia e le fotocopie ingialliscono con il tempo, si fanno sempre meno eloquenti e diventano incapaci di parlare all’oggi e impossibilitate a parlare al futuro e alle generazioni che crescono. Le fotocopie sono l’opposto dell’icona: la vera tradizione è icona, icona fatta storia, nel Popolo concreto e nel Territorio concreto, per noi la tradizione deve porsi come icona del nostro amato Gargano. Quale icona la tradizione deve essere linfa della comunità credente: per questo non basta ripetere. Ripetere non è fare memoria, non è vivere eucaristicamente. Da discepoli del Risorto bisogna avere il DNA di donne e uomini del futuro. Il filosofo danese Soren Kierkegaard sosteneva che la storia, quindi anche la storia nostra di salvezza, si muove solo se alla capacità di guardare al passato, e ovviamente di guardare con intelligenza e autentica memoria, si lega la capacità di pensare a partire dal futuro. Impegniamoci allora ad essere Chiesa che sa sì guardare al passato, ma ancora di più che è capace di pensare a partire dal futuro. Chiesa che ha radici sì in una tradizione più che millenaria, e per questo le cura perché siano sempre capaci di assorbire e di far salire la linfa vitale nell’albero della comunità credente e nella società civile di riferimento, radici vive, non piantate come pali di cemento o ferro nel terreno, quindi destinate ad arrugginire o a imputridire, ammazzando la crescita dell’albero. Domandiamoci quanto ci sia da vitalizzare nella vita delle nostre tradizioni, quanto ci sia magari anche da abbandonare, perché non più vitale, ma inutile zavorra, che impedisce la navigazione della barca della Chiesa, che la rende più fragile alle tempeste e attaccabile dai marosi. Tocca a noi, cristiani del XXI secolo, renderci conto di questo e sapere abbandonare, gettare a mare per permettere la navigazione con più sicurezza e anche velocità, tocca a noi attizzare il fuoco presente nella brace della tradizione, liberandolo dalla cenere che lo copre e rischia di soffocare. La finalità non può essere solo perpetrare un ripetere di riti come copione di un teatro d’epoca, ma permettere ai riti di essere profezia di quel Dio che sta preparando come sempre cose nuove per il suo popolo (Ger 29). Se sappiamo leggere la pandemia da profeti e non da cassandre, malauguranti per sé e per gli altri, ricordiamoci del testo del profeta Geremia, si tratta di cose nuove che stanno germogliando, dobbiamo renderci conto e aiutare il popolo a vedere quello che il Signore sta compiendo, non vi accorgete dice il Signore, “ho progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza”. Il capitolo 29 del profeta Geremia contiene parole che aiutano a comprendere la logica del cambio d’epoca in corso e che riescono a soccorrere gli animi di tutti in tempo di pandemia. La vocazione della Chiesa è di essere Profeta dell’azione di Dio, che non abbandona, che precede, che è già più avanti di quanto non siamo noi o crediamo di esserlo, che sta tessendo progetti di pace e di speranza. Al Popolo in esilio il Signore promette che vuole lasciarsi trovare, cambiare in meglio la situazione, radunarlo nuovamente, riportarlo al proprio Territorio.

 

  • Tre vie per trasfigurare la Cultura nel nostro amato Gargano

 

Guardando alla situazione del Sud Italia ed in particolare della Puglia, della Provincia di Foggia e del nostro Gargano indico tre “vie”, a mio giudizio particolarmente strategiche per trasfigurare la Cultura rendendola generativa di futuro sano e di sviluppo a tutti i livelli: sociale, civile, economico, politico e eccelsiale. Si tratta di percorrere le vie del rispetto dei giovani, della educazione alla legalità e della attenzione e lotta alle mafie.

 

Prima via: riconoscere ai Giovani il diritto al futuro

 

Il nostro conterraneo Ferdinando Menga, che per anni è stato professore di filosofia ed etica politica all’Università di Tubinga, e che ora è docente di filosofia del diritto presso l’Università della Campania “Luigi Vanvitelli”, già nel 2016 metteva in guardia sull’ingiustizia intergenerazionale. Riporto alcuni brevi e chiari passaggi di denuncia. “Una delle maggiori critiche che diversi autori hanno posto al meccanismo democratico è proprio quella di non riuscire a rispondere adeguatamente all’emergenza ambientale e intergenerazionale a causa del ‘presentismo’ di cui è prigioniero e che non risulta solo dalle cattive pratiche di governi pressati dalla resa dei conti del prossimo riscontro elettorale … piuttosto di un ‘presentismo’ democratico di carattere molto più strutturale, poiché radicato nella natura stessa del dispositivo della sovranità popolare e autodeterminazione collettiva, cioè quello di un esercizio del potere dei ‘cittadini presenti’, orientato al ‘presente comune’ e a favore dei ‘presenti’ … che si tramuta in una ‘tirannia dei contemporanei’ e finisce per esercitare una profonda e ‘sistematica ingiustizia’ nei confronti delle generazioni future”[24]. Nel suo ultimo libro Menga parla addirittura di “vocazione intergenerazionale” che esige da noi un cambio di rotta – appunto una Trasfigurazione – che ci faccia pensare a un nuovo modello di comunità[25], che sia in grado di aprirsi a questa nuova forma di alterità di natura temporale: cioè l’alterità di chi ancora non c’è.

Se tale rischio è denunciato a livello mondiale per la situazione della globalizzazione che, come mette continuamente in guardia il Papa, si fa globalizzazione dello scarto, escludendo popoli e generazioni intere, rubando loro il diritto all’autodeterminazione e addirittura al futuro, è diventato nel nostro sud e nel nostro territorio una vera patologia. Si sta orami da anni assistendo ad una ‘desertificazione generazionale’: alla continua fuga dei nostri ‘migliori giovani’, professionalmente ed accademicamente preparati, verso il nord e paesi stranieri, impoverendo in questo modo non solo il territorio, ma addirittura segnando il futuro di solo invecchiamento. Ribadisco quanto ho scritto nella prima lettera pastorale a proposito del dramma della disoccupazione: “da credenti non possiamo chiudere gli occhi di fronte ad una delle piaghe più tristi che inficia il nostro territorio, creando tensioni sia nelle famiglie che nel tessuto sociale, come la disoccupazione, specialmente quella giovanile, che costringe molti giovani ad emigrare, privando la nostra terra garganica di risorse fresche, creative e innovative. Piaga che mina il tessuto sociale, da un lato imbrigliando le tante potenzialità ivi presenti, dall’altro creando conflitti ad ogni livello, i quali molto spesso sono o taciuti o camuffati, o peggio ancora falsamente rimossi: tale piaga finisce per logorare i legami sia familiari che sociali. La disoccupazione, frenando i sogni delle future generazioni, ruba loro la speranza, costringendo i giovani a vivere un presente senza prospettive e senza alcuna forma di realizzazione e di inserimento nel mondo degli adulti: si sta ‘rubando’ il futuro alle nuove generazioni”[26]. Inoltre si accolgono giovani emigrati, senza munirli di diritti e protezione sociale e sanitaria, solamente per mancanza di “braccia per lavorare” e la certezza di poterli ricattare sul compenso salariale, nasce così una patologia ancora più pesante e delinquenziale: la logica e forza dello sfruttamento del caporalato che costituisce il moderno schiavismo e razzismo generazionale, ingaggiando una guerra fra poveri dove a vincere sono sempre e solo i ricchi e gli sfruttatori.

Trasfigurare la cultura richiede l’impegno di tutta la società ad aprire le porte del futuro ai giovani, a considerare i diritti delle future generazioni come un dovere da parte delle generazioni adulte che oggi decidono sull’indirizzo del percorso civile della cultura e sulle scelte dell’economia. E dovere di chi oggi è in grado di agire e decidere garantire la vita e il benessere di tutti, mettendo come prima prospettiva non l’immediato successo nel presente, ma la sostenibilità di un vero progresso in grado di garantire futuro ai giovani. Possiamo chiamare “progresso e sviluppo reale” non il profitto immediato, sovente destinato a pesare come un macigno su chi verrà dopo, ma “il progetto e la visione di un futuro sostenibile e di un’ecologia integrale”. Le generazioni in crescita meritano un presente con i tratti della speranza, dell’onestà e della bellezza, che sono i tratti del futuro! Meritano essere guidati e sostenuti da donne e uomini liberi mentalmente e socialmente, amanti del vero e non della menzogna e delle raccomandazioni. I giovani meritano un forte abbraccio di persone con un cuore che pulsa di professionalità e amore sociale e non di sorrisi a mezzo labbro tipico di personalità con un cuore di pietra atrofizzato sul proprio interesse momentaneo. Una cultura capace di generare futuro non si progetta con scopi di carriera e portafogli gonfi, nasce dall’impegno e dalla ricerca che sa che “nessuna notte sarà così buia da impedire al giorno di ritornare”.

Come comunità riunita da Gesù abbiamo il dovere di far sentire ai giovani che Dio li ama, che Cristo li salva, che Cristo vive“Giovani, non rinunciate al meglio della vostra giovinezza, non osservate la vita dal balcone. Non confondete la felicità con un divano e non passate tutta la vostra vita davanti ad uno schermo. Non riducetevi nemmeno al triste spettacolo di un veicolo abbandonato. Non siate auto parcheggiate, lasciate piuttosto sbocciare i sogni e prendete decisioni. Rischiate, anche se sbagliate. Non sopravvivete con l’anima anestetizzata e non guardate il mondo come se foste turisti. Fatevi sentire! Scacciate le paure che vi paralizzano, per non diventare giovani mummificati. Vivete! Datevi al meglio della vita! Aprite le porte della gabbia e volate via! Per favore non andate in pensione prima del tempo … Questo mondo è pieno di bellezza!”[27]. Queste meravigliose immagini di Papa Francesco sono rivolte ai giovani, ma sono interpretate dagli adulti che si sono lasciati incontrare e fatti discepoli del Signore Gesù.

Inoltre la cultura che dà futuro alle nuove generazioni passa attraverso il Vangelo della famiglia affidato in modo particolare ai coniugi cristiani. “Dio ha affidato alla famiglia il progetto di rendere ‘domestico’ il mondo, affinché tutti giungano a sentire ogni essere umano come fratello … le famiglie parlano di Gesù agli altri, trasmettono la fede, risvegliano il desiderio di Dio e mostrano la bellezza del Vangelo e dello stile di vita che ci propone … Non si vive insieme per essere sempre meno felici, ma per imparare ad essere felici in modo nuovo”[28].

E concludo con un’affermazione, che sa di battuta, ma che contiene, a mio giudizio la “chiave di lettura” del rapporto tra generazioni: “E’ tempo di smettere di pensare al problema o ai problemi dei giovani (casa, lavoro, figli, ecc.). E’ tempo di gridare dai tetti la verità: i giovani sono la risposta, gli adulti il problema!”[29].

 

Seconda via: educazione e sviluppo della Legalità

 

La Legalità non è né un semplice dovere legato all’esecuzione della legge, anche se ne richiede l’attenzione ed il rispetto, né una modalità di agire che ognuno applica ad interessi individuali e di parte. La Legalità è parte della cultura di un Popolo e di un Territorio, è la virtù che permette al Popolo ed al Territorio di crescere e svilupparsi nella giustizia e con la certezza del rispetto dei diritti all’uguaglianza ed opportunità per tutti. Ho scelto di scrivere Legalità con l’iniziale maiuscola per sottolinearne l’importanza strategica e la dignità in essa contenuta: sono convinto che possa paragonarsi al nome proprio dell’agire secondo retta coscienza e senso di fraternità universale e amicizia sociale, come Papa Francesco l’ha chiarita nell’enciclica Fratelli Tutti.

E’ sotto gli occhi di tutti come la Legalità sia continuamente messa a rischio e infangata nel nostro Territorio ed in mezzo alla nostra gente del Gargano e Capitanata. Non possiamo rassegnarci a vederla continuamente ferita ed usata per interessi privati e solo per il diritto dei più ricchi. San Oscar Romero, martire della fede e della giustizia, ripeteva sovente che “la legge è come il serpente, morsica solo chi cammina scalzo”, è scalzi camminano i poveri non i ricchi e potenti! La legalità è l’uso corretto della legge, è sostenere il diritto della giustizia e del bene comune prima dell’interesse privato. Ma perché questo sia possibile e la legge non diventi l’arma del forte contro il debole o risponda a imposizioni criminali, che si danno le loro leggi e le fanno rispettare a modo loro, bisogna tutti educarci e collaborare all’educazione alla Legalità. Solo attraverso l’opera di educazione dell’intera società e delle sue Istituzioni l’autentica Legalità diventa cultura e feconda di benessere il Popolo ed il Territorio. Riporto quindi, quasi per intero, perché a mio giudizio resta attualissimo il paragrafo che avevo dedicato all’educazione alla Legalità nella mia prima lettera pastorale[30].

L’educazione alla Legalità credo costituisca un punto focale per il nostro territorio e società tanto civile che ecclesiale del Gargano. Il continuo ripetersi e crescere esponenziale di azioni violente, fino agli omicidi ed alla sparizione di persone, passando per gesti intimidatori e di chiaro stampo mafioso, non ci possono lasciare silenti.

Diventa inutile lamentarsi per la carenza di lavoro, la fuga dei giovani in altre regioni italiane ed europee se non recuperiamo la Legalità. Infatti, non c’è spazio per lo studio serio ed il lavoro onesto che produce a sua volta ricerca e lavoro senza rispetto della Legalità. Educare alla Legalità significa innanzitutto prendere coscienza della realtà per quello che è, senza nascondersi dietro false etichette, paure, morosità e sterili lamentele, cercando di innescare processi positivi nelle scuole, nelle associazioni, nei gruppi di riferimento a cui si aderisce, nelle parrocchie e nella società civile. Ricordava il beato Padre Pino Puglisi, sacerdote ucciso dalla mafia: “credo a tutte le forme di studio, di approfondimento e di protesta contro la mafia. La mafiosità si nutre di una cultura, e la diffonde: la cultura dell’illegalità. La cultura sottesa alla mafia è la svendita del valore della dignità umana. E i discorsi, la diffusione di una cultura diversa, sono di grande importanza. Ma dobbiamo stare molto attenti che non ci si fermi alle proteste, ai cortei, alle denunce. Se ci si ferma a questo, sono soltanto parole. Le parole vanno convalidate dai fatti”[31].

 Non dobbiamo pensare solo ai fenomeni eclatanti perché la cultura dell’illegalità procede infatti a piccoli passi, nasce da episodi che possono sembrare contingenti. Per fare un esempio concreto, guardando ai nostri giovani. Quale cultura della Legalità perseguono coloro che affittano degli appartamenti ai giovani minorenni, con l’escamotage che a richiedere l’affitto sia un maggiorenne?

Per l’uso squilibrato dei social sembra che oggi la parola umana non crei più relazione, diventa vuota e amorfa. L’educazione alla Legalità deve invece poter attingere ad una virtuosa correlazione pedagogica tra silenzio, ascolto e parola. Il silenzio come luogo in cui si può non solo ascoltare, ma anche accogliere la parola e innescare processi di riflessione. È sempre più necessario che l’impresa educativa s’impegni ad offrire, a giovani e non, tutti quegli strumenti adatti per formare l’uomo interiore a livello della coscienza. Nella prospettiva della fede cristiana, come ricordava anche Giuseppe Dossetti, la riscoperta dell’uomo interiore è un momento propedeutico alla conversione verso l’uomo nuovo[32]. Da qui l’importanza di tornare ad educare alle virtù, anche attraverso un uso prudente e moderato degli stessi social, come suggerisce Pier Cesare Rivoltella[33]: non possiamo pensare che possa diffondersi una cultura della Legalità, se non torniamo ad educare i giovani alla ricerca della sapienza. Formarli cioè al discernimento e a saper giudicare e vagliare ciò che è sapienza da ciò che è stoltezza. Arte che non s’improvvisa, ma richiede una costante applicazione nell’ascolto del Vangelo e dell’impegno a renderlo paradigma di comportamento personale e comunitario. Oggi invece, quasi come un meccanismo di difesa, si prova a colmare il vuoto di senso con il tentativo affannoso di accumulare ricchezze o emozioni: ma tutto ciò è solo una suggestione. Purtroppo registriamo che sono in aumento, anche nei territori della nostra arcidiocesi, le dipendenze dalla droga al gioco compulsivo: e il tempo di pandemia non ha bloccato tali rischi, anzi li ha aumentati!

Non perdiamo tuttavia la speranza. È azione profetica quella di denunciare ciò che non va, demolire, infrangere le strutture di peccato, ma per lasciare che sia il Signore ad edificare e costruire. Come Chiesa, in una prospettiva educativa, non temiamo di riscoprire e proporre la decisività del ruolo testimoniale: pensiamo al monito di Papa Paolo VI, “il mondo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, e se ascolta i maestri è perché sono testimoni”[34]. L’evaporazione di un certo modello di “padre-padrone” può diventare una chance per riscoprire la figura di un padre che sa essere anche maestro e testimone.

Non perdiamo tuttavia la speranza. Sono nate e si stanno sviluppando nel territorio della nostra Arcidiocesi iniziative che fanno prendere coscienza del bisogno di Legalità e la promuovono: ci si rende conto che solo da questa può partire un nuovo e sano spirito di società civile. Alcune di queste iniziative ho avuto modo di avvicinarle, conoscerle ed incoraggiarle nel loro delicato impegno. Negli anni appena trascorsi alcune comunità del nostro Gargano hanno vissuto momenti difficili, sono passate attraverso la prova del commissariamento e dello scioglimento delle Amministrazioni a motivo di infiltrazioni mafiose: penso in particolare a Monte Sant’Angelo e Mattinata. La popolazione però non si è rassegnata, non ha sentito il momento come una sconfitta, ma ha cercato di interrogarsi e si è impegnata a avviare nuovi percorsi di ripensamento e programmazione virtuosi per far rialzare il livello della vita civile e partecipazione democratica. Sono quindi da apprezzare ed appoggiare tutti i tentativi di reazione e di ricerca di vie nuove per la crescita della convivenza civile e la gestione ordinata e secondo legalità della Res Publica. Bisogna reagire ad ogni forma di rassegnazione, scoraggiamento e paura, le forze e capacità per rigenerare città e la modalità di amministrale sono presenti nel nostro Gargano, basta dire “no” al vecchio, che sempre cerca di riemergere, e scommettere sui valori presenti del bene comune e della legalità: saranno questi a vincere e dare al nostro Territorio e Popolo un volto nuovo e trasfigurato.  Come per le città sopra ricordate è stato possibile il ritorno ad amministrazioni democraticamente elette, lasciandosi alle spalle la macchia del commissariamento, l’augurio è che anche Manfredonia e le altre città della provincia di Foggia oggi in regime di amministrazione commissariata sappiano approfittare del momento per recuperare in Legalità e riaprire il percorso democratico secondo la Costituzione italiana.

Non perdiamo allora la speranza: tra la nostra gente e nella ricchezza della nostra cultura ci sono presenze e forze positive in grado di Trasfigurare in meglio e dare futuro sicuro al Territorio ed al Popolo che abita l’amato Gargano.

 

Terza via: mantenere alta l’attenzione e la lotta alle mafie

 

Purtroppo da troppo tempo ed in modo silenzioso ed occulto il nostro Territorio, irresistibile per bellezza, ed il nostro Popolo unico per cultura, è stato ed è soggetto al puzzo della criminalità organizzata che agisce con logiche mafiose. E’ giunto il tempo di aprire gli occhi davanti alla realtà, denunciare ed agire in modo da riprendersi la libertà che Popolo e Territorio hanno diritto di vivere e interpretare. Nessuno parlava di Mafia in terra garganica, anche se si avvertiva la presenza, c’è voluto il coraggio di donne come le vedove Luciani, dopo la strage di San Marco in Lamis, a far aprire gli occhi a tutti, a togliere il velo che copriva un’omertà che si riteneva legittima difesa. E’ invece l’omertà non difende nessuno, ma rende tutti possibili vittime, di un nemico che si finge di ignorare. Finalmente anche autori e giornalisti coraggiosi hanno contribuito a stanare la sub-cultura mafiosa che dominava in modo subdolo il nostro Popolo. Dobbiamo ringraziare Carlo Bonini e Giuliano Foschini che, con il libro Ti mangio il cuore, hanno fatto conoscere all’opinione pubblica italiana l’esistenza di quella che è ora è chiamata “quarta mafia”, e Stefano De Carolis che, con il testo Con un piede nella fossa, ripercorre l’origine delle cosche mafiose pugliesi fin dagli anni immediatamente successivi all’unità d’Italia[35]. Così è sintetizzabile il primo dei due testi che ho citato: Da tempo in Italia non esistono più soltanto la mafia siciliana, la camorra e la ’ndrangheta. C’è una quarta mafia, che oggi è la meno raccontata e conosciuta. Eppure, dopo la ’ndrangheta è la più potente. E anche la più feroce. Nelle terre che si estendono dal promontorio del Gargano a Cerignola, fino a Foggia e San Severo, la Società foggiana ha il proprio centro operativo, ma i suoi tentacoli sono ormai estesi in un enorme giro d’affari internazionale. La sua violenza è arcaica e bestiale. I suoi membri firmano gli omicidi sparando al volto della vittima, perché deturpare le sue sembianze significa cancellarne la memoria. Della vittima, poi, leccano il sangue. Fanno sparire i cadaveri dandoli in pasto ai porci – per forza predatoria e per omertà. Si nasce, si cresce e si muore nel culto della vendetta. Sangue chiama sangue. Dagli anni settanta a oggi gli omicidi irrisolti sono 280. Trentacinque solo nel biennio 2015-2016. Diciotto nel 2017. Negli ultimi dieci anni, dunque, il pedaggio di sangue è stato di due morti ammazzati al mese. La Società foggiana è oscenamente ricca. Ha il monopolio dell’industria agroalimentare. I silos di grano più grandi d’Europa sono qui. Da molti anni gestisce per la camorra e la ’ndrangheta i traffici di droga, cocaina ed erba, e ora anche di rifiuti. E la politica è subalterna. Un’inchiesta inedita che intreccia le dichiarazioni di investigatori, magistrati e semplici testimoni di questo inferno, per smascherare una catastrofe civile che è stata ignorata troppo a lungo”.

Nonostante tutto questo, ne sono certo, il nostro Popolo sta reagendo e risollevando il capo per riappropriarsi della propria libertà e dignità: è un grande sforzo di educazione culturale che ha come soggetti la presenza dello Stato, delle Istituzioni e delle Chiesi locali della Metropolia di Foggia.

Concordo con quanto ha detto il 22 maggio a Mattinata, in occasione dell’inaugurazione del “Faro della Legalità” l’ex Prefetto di Foggia il dot. Raffaele Grassi due giorni prima di lasciare l’incarico: “si tratta di un’opera muraria che segna un omaggio e un ricordo alle vittime della mafia di questa terra bellissima ma complessa. Ricorre peraltro domani l’anniversario della strage di Capaci dove persero la vita il giudice Falcone la moglie e gli uomini della scorta.  In quegli anni io ero a Palermo e nelle strade si respirava l’odore della morte. Peppino Impastato in vita ebbe a dire che la mafia uccide come il consenso e il silenzio. La storia poi ci consegna la nascita a Palermo di comitati antiracket a testimoniare la presa di posizione di gran parte della comunità palermitana. Le cose cambiarono.  Seguirono gli arresti eccellenti e la destrutturazione delle cosche mafiose.  Fu una svolta.  La comunità si schierò con lo Stato. È sotto gli occhi di tutti la forte azione antimafia espressa dallo Stato in questa terra in questi ultimi anni. Importanti azioni giudiziarie si sono compiute e importanti iniziative amministrative hanno messo in evidenza l’esistenza di gruppi mafiosi fortemente colpiti da tali vicende.  Voglio ringraziare per tutto questo la straordinaria e performante attività posta in essere dal Procuratore Vaccaro dai suoi colleghi della Dda e dalle Forze dell’Ordine. Una forte azione repressiva che ha fortemente indebolito i clan. Su questa strada si deve continuare.  È un percorso di libertà.  È un nostro compito istituzionale riaffermare libertà sul territorio. Ma è anche un dovere civico, etico della comunità che deve pronunciate un forte NO alla violenza e ai soprusi della ‘quarta mafia’. Rassegnazione paura e cinismo devono essere spazzati via dalla consapevolezza che lo Stato, è più forte dei delinquenti mafiosi.  I cittadini abbraccino lo stato e si affidino ad esso. Il bene della legalità è quanto di più prezioso esista.  E la sicurezza va costruita assieme. Assieme si può ritornare a respirare il profumo fresco delle libertà. I tentacoli della mafia si proiettano sul mondo politico sul mondo amministrativo e su quello economico per lucrare indebiti profitti. Politici locali imprenditori e pubblici amministratori erigano un muro contro i mafiosi. Denuncino.  Diano esempi a comunità smarrite e rassegnate. Oggi è l’ora del riscatto. Lo dobbiamo soprattutto a coloro che sono caduti per mano della ‘quarta mafia’ e che sono qui raffigurati. Lo dobbiamo ai parenti che soffrono per la perdita dei loro cari. Leghiamoci nella legalità.  Nascano comitati antiracket, si alimentino i cassetti dell’antimafia sociale, si assumano forti iniziative di denuncia. Non ci volti dall’altra parte per spirito di convenienza.  La comunità della Capitanata ha sete di tutto questo per il suo sviluppo anche economico.  Non c’è ricchezza e sviluppo dove le libertà economiche sono condizionate. Non è conveniente schierarsi con i mafiosi.  Cosi facendo c’è solo morte e povertà.  È l’ora del rinnovamento. C’è sete di verità. Le vittime di mafia sono testimoni di verità. Grazie Sindaco per questa testimonianza di dissenso. Tra due giorni lascerò la Capitanata e porterò nel cuore questa terra e questa gente con la speranza di ritornare e rivedere un sole che splende”.

Presente in quell’occasione ho voluto fare i nomi dei casi di lupara bianca ancora irrisolti nella piccola cittadina garganica. Ho avuto modo di incontrare e parlare con le famiglie, ed intendo come segno di cultura elevare la mia voce perché questi casi non cadano in prescrizione, si deve fare luce su tali vicende. Si tratta, purtroppo di casi, non limitati alla cittadina ricordata, ma presenti a macchia di leopardo su tutto il territorio del nostro Gargano. Sarebbe mio desiderio ripetere qui tutti i nomi degli scomparsi e dei casi non risolti, in quanto gridano giustizia non solo davanti a Dio, ma alla stessa dignità di una convivenza civile degna di questo nome. Il rischio di toccare le sensibilità di alcune persone e delle famiglie interessate mi suggerisce di evitare l’elenco. Però Il dolore delle famiglie continua e il grido di giustizia resta alto, pertanto ripeto l’appello rivolto a coloro che ironicamente chiamo “i signori e signore della mafia”: “vorrei dire loro che non sono vincitori, sono delle vittime colpevoli. Ne devono uscire, devono capovolgere le logiche che governano la loro vita. Signore e signori della mafia è arrivato il tempo di collaborare con la giustizia: questa terra ha bisogno di pentiti. Se pentirsi dal punto di vista cristiano è segno di misericordia, pentirsi dal punto di vista civile è segno di civiltà. Se volete recuperare dignità, pentitevi, uscite allo scoperto e consegnatevi alla giustizia umana. Solo così la giustizia divina sarà veramente misericordia”. Sarebbe bello costituire una giornata, che denominerei dell’Attesa, in cui ricordare, attraverso una celebrazione liturgica, tutti i casi di persone scomparse sul nostro Territorio, perché si solleciti a continuare la ricerca ed arrivare alla soluzione: si tratta di giustizia, tanto evangelica che civile!

Manteniamo alta l’attenzione e la lotta alle mafie e ridaremo alla cultura del Territorio e Popolo del Gargano un volto trasfigurato che profumerà sempre più di bellezza e libertà.

 

  1. Trasfigurare l’AMBIENTE

La bellezza irresistibile del nostro amato Gargano porta in sé le tracce di un artista attento, unico, ricco di passione creativa d’amore che riesce a farci intravedere una bellezza trasfigurante dello stesso ambiente naturale che abitiamo. Per rispettare e curare tale bellezza abbiamo bisogno di imparare a cantare come Francesco D’Assisi le “lodi al Dio Altissimo” intraprendendo un inno di gratitudine che va oltre ogni pennellata di stupore e di armonia che qui possiamo cogliere in ogni anfratto. Con il salmista siamo chiamati a contemplare il nostro territorio in una lode che si protende senza fine “Se guardo il tuo cielo opera delle tue dita la luna e le stelle che hai fissato cos’è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?” (Cf Sal 8) Solo se impariamo a guardare con gli occhi di un cuore puro (Mt 5, 8) riusciamo a vedere nell’ambiente che ci circonda, nella natura che è vita in evoluzione, la prima traccia dell’Amore creativo di Dio, quasi la sua firma: “made in nature”.

  • Per una “ecologia integrale” che trasfigura l’AMBIENTE

Cari fratelli e sorelle in Cristo ed amati cittadini,

trasfiguriamo il nostro modo di guardare al Territorio in cui siamo nati e che abitiamo e saremo pronti a dare tutto il nostro contributo per custodirlo e renderlo sempre più bello ed attraente e, come credenti, più luminoso della “firma” del Creatore, che qui ha lasciato un meraviglioso spettacolo della sua originalità.

Prendo spunto dalla relazione, dal titolo Transizione ecologica. La proposta della Chiesa alla luce della Laudato Si’ di Papa Francesco”, tenuta dal prof. Michele Illiceto, Direttore dell’Ufficio Cultura della nostra Arcidiocesi, al Convegno Regionale svoltosi a Taranto il 29 maggio scorso (attività in vista della 49a Settimana Sociale dei cattolici italiani, Taranto 21-24 ottobre 2021). Il professore ha parlato di cinque cambi di paradigma che costituiscono i presupposti per una vera e propria “conversione ecologica”. Li propongo attraverso questa mia Lettera pastorale leggendoli come cinque passi di Trasfigurazione ambientale. E’ da come guardiamo e sentiamo la Terra che si evince o meno la responsabilità verso di essa e si possono raggiungere gli obiettivi che orami da decenni si indicano e si sanno urgenti.

  • Primo passo di Trasfigurazione: passare dalla visione della terra come “proprietà dell’uomo” a “proprietà di Dio”. Nel libro del Levitico c’è un’affermazione di Dio chiarissima: “Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini” (Lv 25,23). Di conseguenza, afferma il Papa, “L’ambiente è un bene collettivo, patrimonio di tutta l’umanità e responsabilità di tutti” (LS 95). La Terra è di tutti, è la “casa comune” che richiede la cura e responsabilità di tutti. Questo significa che il modo di rapportarsi dell’umanità all’ambiente deve cambiare: dalla modalità puramente invasiva-pervasiva, estrattiva e manipolativa, competitiva tra agenti economici che cercano unicamente il loro particolare interesse, deve trasformarsi in modalità collaborativa-cooperativa e recettiva. In altri termini, la Terra va vista come il frutto di un atto di donazione e non di una lotta fatta di appropriazione. In principio c’è il dono e non lo scambio, c’è la gratuità e non la proprietà, c’è la partecipazione non la competitività. Per i cristiani recuperare la dimensione della creaturalità, non solo è importante per non ridurre la Terra e l’ambiente alla sola sfera della economicità e del profitto, ma per inserirla nell’orizzonte della fraternità universale: infatti, se la Terra è di Dio, essa è di tutti, nessuno può vantare più diritti di altri per trasformarla in possesso. Senza la dimensione creaturale la natura viene ridotta a semplice serbatoio da cui estrarre risorse, come solo deposito di materie prime, e la proprietà della stessa finisce nelle mani del più forte e tracotante del momento!
  • Secondo passo di Trasfigurazione: passare dalla logica della “predazione-appropriazione” a quello della “consegna e dell’affidamento”. La Terra ci è stata affidata e consegnata (Gn 1, 29-30 e Gn 2, 15). Questo passo comporta il riconoscere che siamo in debito verso Dio, e sulla Terra dovremmo sentirci tutti stranieri-emigrati, o meglio ospiti. Di conseguenza, ciò che abbiamo ricevuto lo dobbiamo mettere in circolo, lo dobbiamo ridare, in un’ottica di dono circolare, con l’obiettivo della ricerca del Bene comune, che non è la semplice somma degli egoismi e interessi individuali o di gruppi organizzati per imporre il loro dominio.
  • Terzo passo di Trasfigurazione: passare da un atteggiamento di “padronanza-tracotanza” a quello della “custodia e della cura”, abbandonando il modello prometeico fondato sulla hybris (= orgoglio), che vuole l’uomo non soggetto a limite alcuno. “L’uomo – scrive il pontefice – non è padrone ma custode: all’essere umano spetta la responsabilità di ‘coltivare e custodire’ il giardino del mondo (Gn 2, 15) … lo scopo finale delle altre creature non siamo noi. Invece tutte avanzano, insieme a noi e attraverso di noi, verso la meta comune, che è Dio” (LS 83).
  • Quarto passo di Trasfigurazione: passare dal “modello egocentrico” a quello “comunionale-relazionale”, perché tutto è connesso (LS 117). Questo significa che ogni azione individuale ha sempre degli effetti sociali, ecologici, sistemici e planetari. Infatti, scrive il Papa, “l’esistenza umana si basa su tre relazioni fondamentali strettamente connesse: la relazione con se stessi, quella con il prossimo e quella con la terra. La rottura di queste tre relazioni vitali si verifica non solo fuori, ma anche dentro di noi. Questa rottura ci rende fragili” (LS 83). E’ tempo di abbandonare il vecchio antropocentrismo, ormai “dispotico” (LS 68) e “deviato” (LS 69), e che fa assumere all’uomo una posizione autoreferenziale, centrata esclusivamente su di sé e sulle proprie capacità e sul proprio potere. L’antropocentrismo crea la logica “usa e getta che giustifica ogni tipo di scarto, ambientale o umano che sia, che tratta l’altro e la natura come semplice oggetto e conduce a una miriade di forme di dominio” (LS 123).
  • Quinto passo di Trasfigurazione: rivedere il rapporto tra libertà e responsabilità, per passare, come ha suggerito il filosofo ebreo E. Levinas, dal “primato della libertà” al “primato della responsabilità”. Non siamo responsabili perché siamo liberi, ma al contrario, siamo liberi perché siamo responsabili. Passare dall’idea falsa di una libertà illimitata, che sfocia nella hybris intesa oggi come delirio di onnipotenza, a una libertà relazionata-connessa, che sa autolimitarsi per mettere in atto prassi ispirate alla cura dell’ambiente e delle relazioni.

 

Questi cinque passi potrebbero sembrare un parteggiare per il creazionismo, di moda in gruppi fondamentalisti evangelici di stampo statunitense, o una sfiducia nel progresso scientifico e nella funzione di sviluppo della tecnologia. Non è così, è esattamente l’opposto: è dare alla scienza (in quanto ricerca dei “come”) ed alla tecnologia (quale strumento di sviluppo per il bene) il loro preciso ambito di sviluppo e di servizio. Solo il riconoscimento della Terra (e dei diversi ambienti con l’infinita ricchezza delle biodiversità) come “creazione”, libera tanto la scienza che la tecnica dal rischio di diventare strumenti a servizio dei poteri forti, e rimanere dentro il progetto di “cura e custodia” che rispetta tutti e tutto esaltandone l’unicità e la bellezza. C’è bisogno di scienza e tecnica libere: libere di ricerca e libere di agire senza secondi fini. E’ il riconoscimento dell’origine creaturale della Terra la vera garanzia di libertà e di servizio allo sviluppo integrale che non scarta nessuno e niente.

 

Procedendo attraverso questi cinque passi si possono generare “trasfigurazioni” almeno in tre ambiti della vita quotidiana.

Il primo ambito comporta il rivedere il predominio dell’attuale tecnocrazia. Si tratta di ripensare il rapporto tra politica, economia, finanza e tecnica. Non deve essere l’economia (con la sua riduzione alla finanziarizzazione) a governare la politica (oggi molto svuotata di fondamenti etici), ma viceversa. Così come la tecnica (che da semplice mezzo si è eretta a fine) deve essere al servizio del bene di tutti e non solo usata come strumento di potere da chi, avendo i capitali per comprarla ed orientarla secondo i propri progetti, difende solo i suoi interessi privati senza curarsi delle conseguenze.

Il secondo ambito, molto problematico, riguarda il rapporto tra persona, ambiente, lavoro e capitale, per vedere quale giusta gerarchia bisogna stabilire tra di essi. Se il capitalismo considera come bene e fine ultimo solo il capitale, riduce automaticamente il lavoro a costo sociale, monetizzandone il significato, e l’ambiente a serbatoio di materie prime da sfruttare e ricavare il massimo profitto: si farà crescere il capitale riducendo il lavoro e svalutando l’ambiente! La rivelazione biblica, al contrario, mette al primo posto il valore delle persone e del lavoro, della loro salute, segue la cura e custodia dell’ambiente, da considerare “il giardino che fa fiorire la vita”, e solo dopo ci potrà essere posto per il capitale: e questo avrà senso se si usa come strumento per innescare processi di produzione di beni sostenibili, in vista di una uguaglianza non solo formale, ma anche sostanziale, per la ricerca del Bene comune e la salvaguardia dell’ambiente.

Il terzo ambito riguarda gli stili di vita e il ruolo dei cittadini come consumatori. Papa Benedetto XVI, nella enciclica Caritas in Veritate pubblicata nel 2009, al n. 66 scrisse: “È bene che le persone si rendano conto che acquistare è sempre un atto morale, oltre che economico. C’è dunque una precisa responsabilità sociale del consumatore, che si accompagna alla responsabilità sociale dell’impresa. I consumatori vanno continuamente educati al ruolo che quotidianamente esercitano e che essi possono svolgere nel rispetto dei principi morali, senza sminuire la razionalità economica intrinseca all’atto dell’acquistare”.

Questi cambiamenti di paradigma diventano sempre più urgenti per il semplice fatto che, come scrisse il filosofo Günther Anders già negli anni Sessanta, nel suo famoso testo “L’uomo antiquato”, stiamo costruendo “punti di non ritorno”, perché tutto ciò che l’uomo sta creando gli si sta rivoltando contro. In tale nuovo contesto, l’uomo non ha più il potere di controllare ciò che ha prodotto, tanto che come afferma egli stesso, pare che oggi “Ciò che ci manca non è il potere, ma il non-potere”. Insomma, in questi tempi di non ritorno l’unico atteggiamento possibile è quello di una maggiore responsabilità ad ogni livello: individuale e collettivo, ma anche sociale, politico-istituzionale ed economico. Urge un modello di ecologia integrale capace di coinvolgere diversi ambiti: l’ecologia della vita umana, urbanistica, sociale, istituzionale, della ricerca e utilizzo della tecnologia. L’augurio è che in tutto questo ci possa fare da guida un famoso detto del Talmud babilonese, caro al citato filosofo E. Levinas: “Se non rispondo io di me, chi risponderà per me? Ma se rispondo solo di me, sono ancora io?”. La risposta non può che essere collettiva e coordinata dal senso di solidarietà e deve partire dai singoli Territori e Popoli che abitano la nostra Madre Terra: per noi deve partire dal nostro amato Gargano!

 

  • Uno sguardo all’AMBIENTE del nostro amato Gargano

 

La storia del nostro Territorio ha vissuto nei decenni successivi al secondo conflitto mondiale i momenti migliori del suo sviluppo, ed anche ha subito gravi ferite da contraccolpi dovute a scelte industriali non sufficientemente ponderate e lasciate inconcluse, quando non addirittura abbandonate all’incuria ed all’uso da parte di interessi occulti e malavita organizzata.

Ma iniziamo guardando al positivo ed alla vocazione che il nostro amato Gargano ha scoperto e fatta conoscere al mondo intero grazie all’iniziativa di un industriale (Enrico Mattei) ed un Santo (P. Pio da Pietrelcina).

Inizio dal primo citato. Tutto parte dallo sguardo, in una mattina di sole del 1959, ammirato e sorprendente di Enrico Mattei sorvolando col suo aereo privato la costa garganica tra Mattinata e Vieste. Colpito dalla bellezza che gli si presentava dall’alto, affascinato dal mare e dal promontorio, chiese al pilota di sorvolare più volte la zona per rendersi maggiormente conto di quanto vedeva con gli occhi e la mente gli apriva come prospettive di possibile sviluppo ed investimento economico.
Giunto nei pressi di Pugnochiuso, sembra che l’imprenditore abbia esclamato: “Ma questo é il paradiso!”. Ritornato a Roma, ripensò al paesaggio che ricordava con tanto entusiasmo e poiché, già da tempo desidera realizzare una struttura turistica, offrì all’amministrazione proprietaria di una notevole superficie di terreni nell’ambito del comprensorio della località denominata Pugnochiuso, una somma che teneva conto della natura del terreno, della consistenza e della coltura nonché delle somme occorrenti per rendere liberi i terreni occupati dai legittimi proprietari che li lavoravano.

Fu così che nacque il Centro Turistico del Gargano, oggi noto come quello di Pugnochiuso, grazie alla promozione della SNAM del gruppo ENI, che acquistò nel 1962 un vasto territorio di oltre 2600 ettari, per una lunghezza di circa 17 Km di fascia costiera e per una lunghezza di 3 Km di entroterra, comprendente zone di spiccata ed unica bellezza. Iniziò così nel 1963 un progetto colossale che interessava le aree di Baia di Campi, Cala Sanguinaria, Porto Greco, Pugnochiuso, Cala della Pergola, Chiancaliscia e Vignanotica.  L’ampio territorio rimane natura intatta e i centri per l’accoglienza dei turisti non alterano il passaggio, anzi lo conservano allo stato selvaggio e libero da sovrastrutture.

In poco tempo vengono realizzati l’Albergo del Faro, quello degli Ulivi, la caratteristica costruzione della Piramide dov’è ubicato il Centro Commerciale (ristorante, bar, negozi vari, farmacia, un’agenzia del Banco di Napoli, palestre con saune, sala giochi, ecc.), un attrezzato e funzionale Centro Congressi, predisposto anche per i convegni internazionali con impianto di traduzione simultanea, una chiesetta, un centinaio di villette dislocate fra i pini e gli ulivi; piscine, infrastrutture sportive per differenti discipline, un maneggio, una scuola di equitazione e sentieri per percorrere i boschi. Viene anche effettuato il ripopolamento della fauna da tempo scomparsa, starne, pernici, lepri, fagiani, e soprattutto daini e cinghiali. Con l’appoggio dell’Amministrazione locale dell’epoca e l’intuizione di un imprenditore che guidava la più importante Azienda di Stato nacque in poco tempo il Centro turistico di Pugnochiuso che fece conoscere al mondo Vieste e la sua costa e foresta. L’opera in poco tempo diventò stimolo per gli altri Comuni costieri rivelando la vocazione turistica dell’intero Gargano e la sua sostenibilità ambientale arricchendo di iniziative economiche e culturali.

Contemporaneamente, sul versante sud del promontorio, cresceva la fama di santità di P. Pio che attirava a San Giovanni Rotondo migliaia di pellegrini, devoti e anche semplici curiosi. Grazie alla presenza del Santo il comune di agricoltori e minatori si avviò in poco tempo a diventare la seconda città del Gargano con vocazione turistico-religiosa e di servizio sanitario di alta specialità scientifica grazie alla fondazione di Casa Sollievo della Sofferenza nel 1956. Il crescere dei pellegrinaggi e lo sviluppo dell’ospedale concorsero anche a far riscoprire la bellezza e l’unicità di Monte Sant’Angelo, attirando al sito dell’Arcangelo non solo pellegrini, ma anche studiosi e ricercatori universitari. E’ così che si arriva alla costituzione del Parco Nazionale ed al riconoscimento, nell’ultimo decennio, di ben due siti UNESCO sul promontorio più orientale d’Italia.

E’ quella appena raccontata in veloce sintesi è la parte positiva della storia recente, dovuta all’intuizione di un imprenditore laico e di un Santo, entrambe venuti da fuori, ma immediatamente innamorati del Territorio garganico: la loro opera è stata Trasfigurazione dell’ambiente e contributo a svilupparne la vocazione ecologicamente sostenibile.

 

Purtroppo la storia dei medesimi decenni racconta anche altro. Racconta di ferite gravissime inflitte al Gargano, di responsabilità non assunte, di impegni evasi da coloro che li avevano pubblicamente assunti, di abbandono di spazi nelle mani di loschi interessi e di malavita organizzata: cose tutte che non hanno trasfigurato, ma sfigurato il paesaggio terrestre, ed anche marittimo, facendo ammalare l’ambiente e portando malattie per la popolazione.

Alla fine degli anni sessanta ed inizio settanta si assiste alla scelta di industrializzare l’area di Macchia nelle vicinanze della periferia di Manfredonia con la nascita di un impianto petrolchimico. Si compì una scelta deleteria tanto verso l’ambiente naturale, che perse la sua bellezza ed identità, quanto verso la popolazione che subì e continua a subire le conseguenze nefaste: fu una scelta che fece “ammalare” Territorio e Popolazione! La Popolazione non reagì al progetto industriale perché ricattata dalla promessa di creare occupazione assicurando all’industria EniChem indulgenza e mano libera da parte della gente affamata di lavoro. I cittadini videro negata la loro possibilità di esprimere la propria opinione e partecipare alle decisioni che si prendevano sul proprio Territorio a favore di una scelta industriale impattante e inquinante sull’ambiente e la città e furono ingannati da promesse di sviluppo economico che si rilevò non solo discutibile, ma abortivo!

Una data rivelò l’inganno e segnò l’inizio di un Calvario non ancora concluso per la città di Manfredonia. La domenica mattina 26 settembre 1976 la torretta dell’impianto EniChem contenente l’urea esplose improvvisamente. Una colonna di fumo e polvere si alzò facendo ricadere sulla città almeno dieci tonnellate di arsenico: una polvere inodore che si attacca e sposta, ma non scompare, dagli effetti cancerogeni associati ai tumori polmonari, del fegato e dell’intestino. Altre fughe tossiche si verificarono, anche se in misura meno impattante nei vent’anni di attività dell’impianto. La cittadinanza ebbe bisogno di tempo per prendere coscienza di quanto stava realmente capitando e della pericolosità del gioco che si stava compiendo su di lei. Solo alla fine degli anni ottanta, e soprattutto grazie a comitati di donne coraggiose e capaci di indagare nella ricerca della verità, la gente ha potuto prendere coscienza dell’inganno che era stato costruito su di lei promettendo lavoro ed offrendo invece malattia e morte. Tremila donne manfredoniane sono andate al Parlamento italiano e in cinquanta a quello europeo. La Corte Europea dei Diritti diede ragione a queste donne e madri coraggiose e accusò l’EniChem di non aver adeguatamente informato sui pericoli che si correvano. Quando finalmente nel 1994 la fabbrica chiuse, perché ormai obsoleta, gli abitanti rimasero senza lavoro e con una terra avvelenata e che continuava ad avvelenare aria e mare.

Il 1976 era l’anno della tragedia simile avvenuta a Seveso in Lombardia. La vicenda dell’Icmesa, che per un incidente analogo, liberò nell’atmosfera diossina, ricevette una risonanza nazionale ed europea e l’area inquinata fu risanata e riportata alla vivibilità e produttività sostenibile. La domanda mi sembra ovvia: come mai a Manfredonia si agì diversamente? Come mai l’incidente non ebbe la medesima risonanza mediatica ed effetti sull’opinione pubblica? Come mai l’area è rimasta tale, se non peggiorata dopo 45 anni? La risposta va trovata qui da noi se l’area del golfo e l’intera Provincia si trovano nei posti alti delle statistiche di morti per malattie tumorali, se le ferite all’ambiente non sono state curate adeguatamente, se la bonifica del sito (per quanto riconosciuto come SIN = sito di interesse nazionale a motivo dell’inquinamento riconosciuto) non è stata compiuta totalmente. E c’è di più. Non solo non sì è terminato di bonificare, ma la zona, facilmente raggiungibile da chiunque, perché scarsamente controllata, è diventata discarica di altri prodotti inquinanti e ad alto rischio. Prova ne sono gli incendi di questi ultimi mesi che hanno rivelato l’esistenza di materiali inquinanti non riconducibili all’antica area industriale, segno che la bomba ecologica non solo non è stata disinnescata ma continua ad essere alimentata. Mi domando da chi: la risposta è semplice, dai poteri forti mafiosi che si sono spartiti il Territorio e lo usano a loro interesse, dando ogni tanto segnali della loro presenza e forza. Non siamo solo “terra di fuochi”, ma terra tra fuochi fuochi di mafie che credono di impaurire e vincere, ma che sottolineano solo la loro debolezza! Seguire la logica mafiosa significa solo rendere sempre più debole il Territorio ed il suo Popolo: noi vogliamo altro, vogliamo Trasfigurare non sfigurare!

Ribadisco l’appello che ho rivolto il 23 giugno scorso: “La questione ambientale del territorio, la salute dei cittadini, la salvaguardia del creato richiedono cura e rispetto dei beni comuni, giardini, parchi, sentieri, boschi, litorali, spiagge. Dobbiamo imparare a vedere la loro bellezza e delicatezza nella quotidianità del vivere. Impegniamoci, perciò, a proteggere noi stessi e il Creato anche dalle nefaste forze di chi con tali insensati gesti ci minaccia e vuol farci capire che ha le mani sul territorio e che intende ancora una volta sopraffare tutti e tutto.  La nostra Chiesa locale è più che mai sensibile alla questione ambientale quale ‘questione di ecologia integrale’ che abbraccia la migliore qualità della vita e la salute dell’uomo. Rivolgo e rinnovo l’invito urgente a rinnovare il dialogo sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta e in particolare del nostro Territorio. Abbiamo bisogno di un confronto che ci unisca tutti, perché la sfida ambientale che viviamo, e le sue radici umane, ci riguardano e ci toccano tutti. E tutti possiamo collaborare come strumenti di Dio per la cura della creazione, ognuno con la propria cultura ed esperienza, le proprie iniziative e capacità”.

Mi permetto, anche se sono convinto che non è ruolo della Chiesa e del suo Magistero intervenire con osservazioni di tipo “politico”, che spettano alle autorità democraticamente istituite secondo la Costituzione, di suggerire un possibile progetto, che potrebbe essere di aiuto all’ambiente e responsabilizzare maggiormente la popolazione tutta. Forse è tempo di pensare anche alla modifica dei confini delle istituzioni comunali rimasti fermi all’età del ventennio fascista. Di sicuro sarebbe più coinvolgente e responsabile se l’area industriale ex-EniChem, dismessa e non del tutto bonificata e a continuo rischio di “bomba ecologica innescata”, passasse all’amministrazione di Manfredonia. Come credo pure sarebbe più corretto se la borgata di Borgo Mezzanone, con tutta l’ex area della pista dismessa dall’aeronautica e diventata “campo-ghetto”, fosse alle dipendenze del Comune di Foggia. Si tratta solo di un suggerimento, forse dato da uno che non ha le competenze o il “diritto” di farlo, comunque invito le autorità e la popolazione a prenderlo in considerazione.

 

Se ognuno fa la sua parte, insieme facciamo tutto”: così raccomandava il beato don Pino Puglisi ai suoi ragazzi del quartiere Brancaccio di Palermo. Tocca ora a noi fare la nostra parte prendendoci cura di chi è meno fortunato e della ‘casa comune’ in fiamme, senza aspettare, senza delegare, senza disinteressarci. Nessuno può esimersi dal vivere personalmente con sobrietà, senza corse affannose per soddisfare i bisogni effimeri, cominciando dall’evitare ogni spreco di cibo, acqua, illuminazione, riscaldamento, carburante, abiti, cellulari, fino al non sporcare e al non inquinare, ma curando e rispettando come propri i beni e i luoghi comuni che raccontano della capacità di comunicare e della bellezza da ammirare. Condivido quanto scrittomi dal Gruppo giovanile denominato Laudato Si’ che ha sede a San Giovanni Rotondo: Non abbiamo un Gargano B! E’ urgente sostituire la paura con la speranza, l’arroganza con la dolcezza, l’egoismo con la condivisione, riequilibrando tecnologia e creaturalità. Se avremo il coraggio di coltivare lo stupore e lasciarci affascinare, allora la nostra Trasfigurazione è già un atto in divenire che ci fa apprezzare nel nostro Gargano, la bellezza, la cultura, la civiltà, le arti, la santità, la storia”.

Se ci lasciamo coinvolgere dal grido del pianeta Terra, e da quello che la stessa innalza dal nostro Territorio, saremo protagonisti di un futuro migliore per tutti. Ricordiamoci che la Terra è nostra “madre”, e di Madre c’è né una sola! La bellezza del Gargano dice a tutti, abitanti e visitatori, la bellezza ed il fascino della Madre Terra.

L’augurio che vi rivolgo, cari fratelli in Cristo e amici cittadini, è di essere capaci di rendere reali i “sogni ecologici” che stanno nei nostri cuori, consapevoli di poterli vivere coerentemente tutti da Fratelli, Figli di un unico Dio, Abitanti della “Casa comune”, Cittadini del futuro.

 

  1. Trasfigurare la CHIESA

 

Il Signore Gesù non raduna solo una rappresentanza dei suoi Apostoli per trasfigurare sé stesso sul monte Tabor e dare spettacolo della sua identità divina: sarebbe contrario alla rivelazione, che è Kenosis-abbassamento. Gesù continua a trasfigurare il Suo corpo mistico che è la Chiesa, perché sia nel mondo segno della presenza del Regno. E possiamo essere certi che chiama ed accompagna anche la nostra Chiesa di Manfredonia-Vieste-San Giovanni Rotondo a trasfigurarsi per essere segno e fermento del Regno di Dio per il Popolo e Territorio del Gargano.

Dobbiamo tutti desiderare ed impegnarci perché la nostra Chiesa locale splenda di un volto trasfigurato dal Vangelo, che le è affidato da annunciare e rendere vita capace di abitare nel Territorio e tra il Popolo garganico.

 

Dobbiamo sognare una Chiesa che:

 

  • sia in ascolto, in preghiera, in azione, pronta sempre al sacrificio di sé, testimone radicale, autentica perché ricca solo di carità;
  • non si organizza per apparire bella e accattivante con l’occhio schiacciato ai potenti e forti di turno, ma che sa rimanere con la schiena diritta e ama dare tutta sé stessa;
  • si lascia guidare dalla forza dello Spirito che è “Amore-agape” e non lascia le sue redini alle mode suadenti del tempo svilendo il Kerigma che è annuncio di speranza per poveri;
  • sia viandante e cirenea dell’umanità senza pensare al proprio tornaconto, con le lampade accese e la gioia che vibra nel cuore;
  • diventa sempre più credibile interprete del canto del “magnificat”, che sconvolge ogni logica mondana, cominciando da quella che si insinua nello spirituale;
  • invoca la Trasfigurazione che parte dai più piccoli e dagli ultimi, quali icone in carne del suo Signore;
  • non cerca consenso e non si adegua alla logica dell’arrivismo, ma si lascia trasformare dall’ascolto del Vangelo e dal farsi serva dell’umanità e custode del creato;
  • traluce il suo camminare di bellezza perché segue colui che è Via, Verità e Vita;
  • guarda e aiuta a guardare verso cieli nuovi e terre nuove dove l’abbraccio del Padre verso il figlio smarrito è logica di fraternità.

Ma sognare una Chiesa così non è facile senza che diventi patrimonio comune di tutti i credenti, impegno condiviso a lavorare dirigendosi insieme verso l’obiettivo, disposti anche a cambiare e a perdere: non sarà sconfitta, ma vittoria per un nuovo futuro più profumato di Vangelo e fermentato di Carità.

Il Congresso Internazionale sulla Vita Consacrata tenutosi a Roma nel novembre 2004 nel testo Il filo conduttore del Congresso così affermava: “Il Congresso vuole essere un grande dialogo che ci porti ad iniziare un processo. C’è molto da fare. Dobbiamo prendere coscienza di questo. Dobbiamo far centro nell’offrire una proposta adeguata. Perciò bisogna lasciar cadere determinate cose e cominciare a realizzare altre. Se continuiamo a fare le stesse cose e nello stesso modo in cui le abbiamo fatte finora, avremo gli stessi risultati che stiamo ottenendo in questo momento. Lo Spirito del Signore è su Di noi: è Lui che ci dà la grazia di ristrutturare per rivitalizzare e di rivitalizzare per rifondare. Ci dà la grazia per morire e per nascere, per lasciare e mantenere ciò che è in rispondenza al momento storico attuale … sappiamo bene che questo esige la conversione personale e comunitaria e anche la trasformazione dell’ambiente e delle strutture e la capacità di porre la nostra fiducia nel Signore. Questo processo deve essere animato da uno spirito. Bisogna avere speranza e passione per iniziare e continuare questo processo[36]. Si tratta di un’affermazione di oltre sedici anni fa, che nasce in ambiente di Vita Consacrata, ma che ha la chiarezza e l’attualità del tempo che stiamo vivendo come Chiesa universale oggi, in periodo di cambio d’epoca e di “ri-partenza” dalla lezione della pandemia da Covid-19. Lo stesso linguaggio richiama quello di Papa Francesco e della sua insistenza sull’aprire processi piuttosto che sull’arroccarsi attaccati alla falsa sicurezza del “si è sempre fatto così”. La pandemia ha scosso violentemente l’albero storico e vivo della Chiesa facendogli cadere le foglie morte di stagioni trascorse, e “potandolo” dei rami secchi e non più produttivi. Ci ha restituito una Chiesa “dimagrita”, apparentemente più minoritaria di quanto non credeva già di essere, ha accelerato il processo di secolarizzazione di cui era affetta insieme alla società che si rivela sempre di più “post-cristiana”.

Mi domando: che cosa è rimasto, che cosa si è fatto più visibile nell’identità della Chiesa tanto universale che particolare grazie alla lezione dolorosa ed esigente della pandemia? Trovo una sola risposta: è rimasta la forza e la chiarezza della PROFEZIA. La profezia parla un linguaggio che va oltre la logica dei dogmi e il dovere dei precetti, va oltre il semplice aderire a concetti religiosi, anche teologicamente fondati, ed allo sforzo di attuare comandamenti e tradizioni secolari. Si tratta di prendere coscienza di quanto con estrema chiarezza ha ricordato proprio nel 2005 Papa Benedetto XVI nell’esordio dell’enciclica Deus Caritas Est: “all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione giusta”[37]. E’ a motivo della profezia che la Chiesa cresce, e lo fa solamente “per attrazione e non per proselitismo”[38].  Sono certo che la pandemia ci chiama ad una Chiesa profetica che parla prima di tutto con il linguaggio della carità e della testimonianza-martirio e che si scrolla di dosso apparati non più leggibili da tempo all’uomo contemporaneo ed alle nuove generazioni: apparati che pensavamo ancora significativi, ma che già Nietzsche definiva “storia archeologica”.

 

La PROFEZIA è parte essenziale della vita della Chiesa e di ogni battezzato, costituito Sacerdote, Re e Profeta, proprio in merito al sacramento ricevuto. Ma la Profezia, delle tre chiamate battesimali, resta la vocazione meno presa in considerazione, non tanto per la difficoltà o responsabilità di chi è chiamato a presentarla, quanto perché richiede il coraggio del futuro e la speranza che il meglio deve ancora venire e ci precede, che sta davanti ed è difficile da percepire! La PROFEZIA è la bellezza dell’orizzonte che attrae e muove, ma che sempre si sposta più in là, è l’energia che mette in cammino. Non temiamo, la Bibbia lo ricorda in ogni testo, i profeti non saranno mai molti, ma non verranno mai meno, perché Dio non abbandona il suo Popolo e se “piccolo” lo ama ancora di più!

 

Non dobbiamo aver paura dei numeri che diminuiscono e continuano a rarefarsi, Dio non ragiona con la logica della matematica, ma con quella del “cuore sfondato dall’amore”, non ci chiede di raccogliere, ma di essere autentici e seminare con fiducia ed abbondanza, adottando una modalità che ha tutta la caratteristica dello spreco: ma nessuna parola del Vangelo viene sprecata, neppure quella che sembra cadere sulla strada o tra le pietre ed essere resa arida dal calore del sole (cf Mt 13, 3-9 e Mt 5, 17-18)!

Le statistiche relative ai praticanti in Italia sono da brivido: “i praticanti sono scesi in dieci anni dal 33% al 27%; tra i giovani (18-29 anni) i praticanti sono solo il 14%, e continuano a calare di quasi il 3% l’anno. Da cosa dipende questa disaffezione che colpisce l’Europa e il mondo economicamente sviluppato, molto meno l’Africa, l’America Latina, le Filippine?”[39]. Da quanto ho sperimentato nella mia esperienza di Superiore generale, posso affermare che l’autore è stato generoso verso l’America Latina: anche lì le cadute sono verticali, ma assorbite da un evangelismo di stampo statunitense che sembra mantenere almeno il riferimento religioso al cristianesimo, privato però di tutta la linea sociale e di denuncia. E poi, per essere franchi, siamo veramente sicuri che tutti i praticanti siano anche credenti, e che tutti i credenti siano da contare solo tra i praticanti? Credo proprio di no: la pandemia, con la diminuzione o “dimagrimento” numerico ha solamente tolto il coperchio all’equivoco a cui ci eravamo abituati e forse, almeno in alcune regioni del Sud Italia come la nostra, creduti al sicuro da quanto era avvenuto altrove.

 

La prima risposta al “dimagrimento” è il ritorno all’origine, alla generatività del Vangelo che sta nell’annuncio di gioia e nella prova della possibilità della fraternità. Sta nell’avere le porte sempre aperte e riconoscere che gli ambienti per “seminare” il Vangelo non sono più solamente gli edifici che abbiamo costruito nei secoli per la Liturgia e la Catechesi. Rimanere solo in questi si rischia di fare la scelta di “blindarsi” invece che accogliere la sfida dell’uscire.

Ha scritto Massimo Borges: “La Chiesa nel suo insieme è tornata a blindarsi, impaurita di fronte ad una secolarizzazione sempre più arrogante, a chiudere nuovamente le porte. Evangelizzazione e promozione umana, i due poli della Evangelii nuntiandi di Paolo VI, si sono persi per strada. Al posto della evangelizzazione troviamo le ‘battaglie’ etiche incentrate sulla lotta contro aborto, eutanasia, matrimonio gay, mentre al posto della promozione umana troviamo una acquiescenza totale verso il modello capitalista e un oblio profondo della dottrina sociale della Chiesa. Conformismo e manicheismo, questi i due poli del cattolicesimo odierno. Di fronte a questa prospettiva non sorprende il progressivo svuotarsi delle chiese e la distanza che separa i giovani dalla fede. Perché mai un giovane di oggi dovrebbe essere attratto da una posizione che si qualifica solo per un campo ristretto di battaglie etico-culturali? Un giovane che, lo ricordiamo, è distante anni luce dal militante impegnato degli anni ‘70”[40].

Prendere sul serio la sfida ad uscire, aver fiducia che esistono tanti credenti anonimi che aspettano soltanto di incontrare chi sappia con loro relazionarsi, dialogare, entrare nella discussione ed avvicinarsi ai problemi senza giudicare o con risposte già preconfezionate. E’ questo, dopo tutto, il comportamento che ci ha insegnato Gesù nel Vangelo: non ha costruito edifici o scelto spazi appositi per trasmettere il suo insegnamento, ha semplicemente camminato tra la gente e per le strade e piazze della sua epoca, ed è stata questa la scelta generativa che lo distingueva dalle Istituzioni religiose dell’epoca.

Ma insieme all’uscire e stare tra la gente ascoltando, commuovendosi e dialogando, Cristo ha chiesto un solo tipo di Istituzione: dimostrare che l’annuncio del Regno ha bisogno di persone amiche, che si amano e comportano da veri fratelli, che agiscono insieme e non da isolati e gelosi delle proprie capacità e spazi di evangelizzazione. Questa seconda caratteristica vale per tutti i battezzati, ma in modo particolare vale per chi ha dedicato la propria vita a Cristo rispondendo ad una vocazione particolare nel ministero sacerdotale o nella vita consacrata: è da come ci amiamo che dimostriamo di essere cristiani e missionari! E’ fondamentale, come ho spiegato nella messa crismale di quest’anno, mantenere alta la tensione alle tre relazioni di essere creature e di avere origini da Dio, dallo Spirito che guida la creazione, la storia della chiesa: figliolanza, fratellanza e paternità/maternità. Figliolanza: siamo figli, siamo sempre figli di fronte a Dio e di fronte alla Chiesa. Il termine figli, ci ricorda che siamo stati generati come discepoli e come tali continuiamo ogni giorno a nascere e cresciamo ogni giorno davanti a Dio e davanti alla Chiesa nostra Madre. Come figli, abbiamo bisogno continuamente di nutrirci alla scuola del Vangelo di Cristo, di bere quello che San Paolo chiama, “il puro latte spirituale”. Il gusto di sentirci figli ci concederà la gioia di rinascere ogni giorno alla nostra vocazione che ci riempirà della forza che viene dallo Spirito: il vero costruttore del Regno. La seconda relazione è la fraternità: quest’anno abbiamo avuto il dono della grande enciclica di papa Francesco Fratelli tutti. Non dobbiamo dimenticare che siamo fratelli, siamo fratelli verso il popolo credente e siamo fratelli verso tutto il popolo, credenti e non credenti. Eppure la relazione della fraternità è quella più facile da trascurare, è quella più a rischio ogni giorno, è quella più ferita continuamente, quando addirittura non uccisa: il primo peccato sociale è un fratricidio, capitolo IV della Genesi, Caino e Abele. Anche quando non si trasforma in un fratricidio fisico, la fraternità può essere uccisa attraverso tantissime altre modalità che ben conosciamo. La fraternità è l’unica relazione, non sanata e che non trova risposta dentro la più grande parabola della misericordia di Gesù, Luca 15, la parabola del “Padre Misericordioso” o del “Figliol prodigo”. C’è poi la terza relazione, la paternità-maternità. Siamo tutti chiamati a essere padri o madri, e i sacerdoti e consacrati lo sono in modo particolare ed unico. La paternità-maternità è la missione carismatica affidata da servire e trafficare per il bene della Chiesa e del Popolo santo di Dio. Missione mai individuale, nessuno può dirsi padre-madre per sé stesso o ritenere la paternità-maternità come una proprietà privata: sarebbe un furto della relazione generante vita. Interpretare con generosità e vivere, nonostante tutti i limiti personali, le tre relazioni renderà ogni battezzato trasparenza di vita santa perché santificata, di vita che gronda del sangue della Croce, ma che profuma continuamente di Resurrezione, e per questo capace di attrarre perché vivere secondo il Vangelo è bello.

 

La seconda risposta al “dimagrimento è avere il coraggio di dire la verità sulle nostre modalità di pastorale, diventate obsolete, e nonostante tutto l’impegno e gli sforzi metodologici e di programmazione non più eloquenti alla comprensione delle generazioni diventate “post-cristiane”, anche se ancora inserite in un apparato esterno che continua a utilizzare immagini e linguaggi che provengono dalla cultura cristianizzata. Diventa necessario, come afferma don Armando Matteo, Sottosegretario aggiunto alla Congregazione per la Dottrina della fede, compiere una rivoluzione copernicana della mentalità pastorale[41].

Riporto alcune osservazioni dal testo citato in nota, testo che ha un sottotitolo “rivoluzionario” (Eclissi dell’adulto e trasmissione della fede alle nuove generazioni) per cercare di capire cosa intenda l’autore parlando di “rivoluzione copernicana della pastorale”:

  • il contesto in cui i cristiani si trovano a testimoniare la loro fede non presta più alcuna fiducia ad un’antropologia della crescita, della maturazione, del diventare grandi ed adulti. Le attuali generazioni adulte sono le prime veramente innamorate di questa terra. Per loro la Salve Regina, con le sue lacrime, il suo esilio, i suoi gemiti è ormai solo una pia citazione;
  • oggi è necessario passare da un cristianesimo della consolazione ad un cristianesimo dell’innamoramento: grazie al quale ci si possa innamorare di Gesù e diventare cristiani;
  • bisogna prendere atto della necessità di passare da una Chiesa che, tramite i suoi riti e le sue promesse, dà luce alla vita degli adulti ad una Chiesa che dà alla luce gli adulti;
  • riconoscere che l’imperativo categorico di oggi è l’adorazione della giovinezza: non cedere sulla tua giovinezza. Non cedere cioè dalla tua situazione di potenza, di libertà, di forza, di attrazione, di possibilità di vita nuova e di nuove vite[42].

Lascio ora concludere direttamente l’autore: “Ciò su cui ora è bene indirizzare l’attenzione è l’evidenza che a chi scrive appare come la più netta circa l’attuale agire ecclesiale: l’evidenza del mantenimento in vita di una mentalità pastorale – con i suoi riti, le sue pratiche e i suoi ritmi – che non ha fatto per nulla i conti con questo slittamento di segno e di senso della condizione degli adulti e della categoria dell’adultità. In una parola con l’eclissi dell’adulto. L’azione concreta della vita delle parrocchie è, in altri termini, ancora oggi sorretta da una sensibilità per l’umano che andava in certa misura bene quando i maschi morivano sui 50 anni, le donne erano tutte ‘ casa, chiesa e cucina’, gli omosessuali venivano marginalizzati se non addirittura puniti per legge, la povertà, le guerre, l’ignoranza, la frustrazione complessiva stavano all’ordine del giorno di ogni famiglia e le conseguenze medico-sanitarie diffuse e messe in atto non erano ancora così distanti da quelle del Medioevo, nonostante i secoli trascorsi”[43].

Aveva profeticamente ragione il Cardinal Carlo Maria Martini quando affermava che la Chiesa era in ritardo di due secoli rispetto al cammino della società. Se la pandemia ci ha aperto improvvisamente gli occhi, ci dia anche il coraggio di agire e re-agire in modo creativo, senza paura ad aprire strade nuove, ad avviare processi, anche se non ne vediamo e vedremo la meta. Veramente serve una Chiesa che non tanto “rifletta” (= verbo della logica), ma che sia “riflesso” (= sostantivo della vista e del cuore) di Gesù Cristo, che sappia andare incontro ai giovani ed agli adulti che continuano ad adorare in loro la gioventù.

 

La terza risposta al “dimagrimento è mantenere il “volto della Misericordia” sempre e tutti: pastori e gregge. Come partecipi dell’unico battesimo, siamo chiamati ad essere Misericordes sicut Pater[44], evitando ogni forma di irrigidimento, che scandalizza e rende controproducente l’annuncio stesso del Vangelo, presentando la Chiesa come “non credibile” davanti al mondo. Una domanda fondamentale che emerge in questa epoca di secolarizzazione e radicale scristianizzazione, riguarda la possibilità per la Chiesa di essere “credibile” nel portare il messaggio della Misericordia, cuore del Vangelo, di cui essa è, al contempo, garante e annunciatrice. I gravi scandali finanziari, morali e sessuali che l’hanno travolta in questo inizio millennio, e che ancora continuano a segnarla, rendono opaca la sua testimonianza fino al punto da risultare “falsa” o “non credibile” agli occhi di molti contemporanei, soprattutto tra quanti sono onestamente aperti alle domande di senso e alla ricerca di trascendenza. Nello specifico, essa risulta “falsa” perché incapace di umiltà e di autocritica evangelica, ergendosi sempre e comunque a maestra di umanità per l’umanità; “non credibile” poiché caratterizzata da strutture rigide, dal linguaggio ermetico e rivestita solo in superficie da un abito con ornamenti evangelici. Difronte a tale situazione, urge che la Chiesa, partendo dalle persone dei suoi pastori e dei consacrati, non snaturi il messaggio della Misericordia riducendolo a mero slogan propagandistico con lo scopo di attirare simpatie o di trarre visibilità mondane.

In tale prospettiva, risulta chiaro che solo l’annuncio accompagnato dalla concretezza della Misericordia del Padre, rivelata pienamente nel Figlio Crocifisso e Risorto, distrugge ogni illusione autoreferenziale della Chiesa. E’ la Misericordia “fatta carne”, in gesti concreti e quotidiani di carità, che supera logiche proselitiste e clericali, che abbatte interessi atti solo garantire visibilità nella società di un determinato contesto geopolitico e di uno specifico tempo storico. E’ la Misericordia che incoraggia decisamente a praticare un amore disinteressato per il prossimo, ponendo al centro non la reputazione, bensì l’exemplum Christi. Di conseguenza, il messaggio evangelico della Misericordia demolisce le fortezze ideologiche nelle quali si rinchiudono credenti che, seguendo false certezze e rivendicando privilegi terreni, restano sordi al grido dell’ingiustizia presente nel mondo, insensibili ai mutamenti culturali, antropologici e sociali, ciechi dinanzi ai “segni dei tempi”. L’essere Misericordes sicut Pater facilita il dovere di superare l’irrigidimento delle strutture organizzative o di potere ecclesiastiche, le quali, per quanto burocraticamente efficaci, senza Misericordia collassano cristianamente. Al contrario, l’annuncio della Misericordia rinnova la Chiesa universale e locale nel suo intimo, la rende sempre più visibilità della forza e dell’amore illimitato di Dio Padre manifestato in Gesù Cristo.

 

Concludo questo capitolo sul Trasfigurare la Chiesa con un passaggio dell’omelia di Papa Francesco all’apertura del Sinodo dei giovani il 3 ottobre 2018:

“All’inizio di questo momento di grazia per tutta la Chiesa, in sintonia con la Parola di Dio, chiediamo con insistenza al Paraclito che ci aiuti a fare memoria e a ravvivare le parole del Signore che facevano ardere il nostro cuore (cf Lc 24, 32). Ardore e passione evangelica che generano l’ardore e la passione per Gesù. Memoria che possa risvegliare e rinnovare in noi la capacità di sognare e sperare. Perché sappiamo che i nostri giovani saranno capaci di profezia e di visione nella misura in cui noi, ormai adulti o anziani, siamo capaci di sognare e così contagiare e condividere i sogni e le speranze che portiamo nel cuore (cf Gl 3,1)”.

Lo stile sinodale intrapreso da anni e cercato di accelerare a partire dall’esercizio proposto a tutta l’Arcidiocesi da gennaio 2021 ci sia di aiuto a TRASFIGURARE la nostra amata Chiesa garganica. Il percorso deve essere sempre segnato dai tre VERBI AUSILIARI, che fanno da strumenti laboratoriali non solo di pensiero, ma ancor di più di emozione ed incontro: ASCOLTARE, DIALOGARE e DISCERNERE. Che si trasformino in esercizio costante della nostra pastorale perché possa essere ANNUNCIO, TESTIMONIANZA e CELEBRAZIONE[45].

 

Che la nostra Chiesa di Manfredonia-Vieste-San Giovanni Rotondo annunci il Cristo Crocifisso e Risorto senza preoccuparsi troppo degli errori di grammatica o sintassi, importante è che abbia il coraggio di scrivere, se no il Signore Gesù non può rendere dritte le nostre righe storte, se non abbiamo il coraggio di esprimerci. E’ solo con questo coraggio, fragile e seminato di Vangelo, che la nostra Chiesa dà il suo contributo a trasfigurare il Territorio ed il Popolo del nostro amato Gargano.

 

Terza parte

 

Ascolto, dialogo, discernimento, azione e verifica in itinere

 

La terza parte di questa Lettera è il frutto del lavoro in stile comunionale e sinodale, orami sperimentato da anni, e messo a tema in modo del tutto particolare e capillare a partire da gennaio 2021. Si è cercato di contattare più persone possibili, sia parte delle nostre comunità parrocchiali e di movimenti ecclesiali, che esterne o solo indirettamente interessate alla vita e proposte pastorali e caritative della nostra Chiesa locale.  Si è trattato di un lavoro di ascolto e dialogo, ora tocca passare al processo di discernimento ed azione, sempre accompagnato da una verifica in itinere.

 

STRUMENTI

 

  • Sintesi dei lavori del percorso sinodale compiuto tra gennaio e luglio 2021

 

Si invita a consultare, riportati con sole correzioni di stile, gli elaborati di sintesi prodotti dalle cinque VICARIE, in cui è suddivisa pastoralmente l’Arcidiocesi, più quello della CDAL, che ha raccolto quanto fatto giungere dalle differenti Associazioni Laicali presenti nel territorio diocesano. La finalità è sia il voler CONDIVIDERE, che avere memoria di quanto approfondito e sintetizzato nel proprio ambiente territoriale di pastorale per poterne VERIFICARE la capacità “generativa” e “trasformante” delle intuizioni emerse nel percorso comunionale compiuto. Si tratta ora di avviare un processo pastorale che sarà cadenzato a livello vicariale da un calendario che impegnerà un quinquennio.

 

Vicaria di MANFREDONIA

Vicaria di VIESTE

Vicaria di SAN GIOVANNI ROTONDO

Vicaria di MONTE DANT’ANGELO

Vicaria del GARGANO NORD

CDAL

 

Il materiale sopra indicato, comprendente anche le sintesi preparate dai singoli Uffici/Servizi di curia, può essere letto e consultato scaricandolo dal sito della arcidiocesi cliccando sul seguente link: http://www.diocesimanfredoniaviestesangiovannirotondo.it/

  • Esercizio quinquennale per Vicarie su cinque sfide pastorali

 

Le cinque sfide pastorali individuate per il quinquennio (2021-2026)

 

Stimolati a livello mondiale, nazionale e locale abbiamo avviato un percorso di discernimento pastorale con alcuni strumenti che rendessero sinodale il nostro lavoro di verifica alla luce della pandemia da covid-19. Dalle verifiche delle Comunità parrocchiali e religiose, delle Aggregazioni laicali e dalle riletture degli Uffici/Servizi diocesani emerge una situazione che da un lato mostra tutte le fragilità evidenziate durante la pandemia, ma che dall’altro ha creato nuove intuizioni pastorali che possono illuminare e stimolare il processo di trasfigurazione che intendiamo perseguire negli anni a venire. “È tempo di nuove tessiture per intrecciare insieme con arte la trama della vita della gente con l’ordito della Parola del Vangelo” (Cf sintesi della Vicaria di Monte Sant’Angelo).

 

Con l’aiuto degli Uffici/Servizi di Curia si è riletto l’abbondante materiale prodotto nella fase della verifica (febbraio-maggio 2021). Ogni comunità si è attivata per ascoltare tanti, anche quanti abitualmente non frequentano assiduamente le iniziative proposte dalla Chiesa.

 

Sono state evidenziate come urgenti e vie da seguire cinque sfide pastorali, decidiamo dunque di farle comuni a tutta l’Arcidiocesi per il percorso pastorale del quinquennio che abbiamo davanti a noi (2021-2026). Le cinque sfide pastorali sono le seguenti:

 

  • Trasmettere la fede nel mondo di oggi. Si tratta del mandato di Gesù Risorto: andate dunque e fate discepoli tutti i popoli (Mt 28, 19) e ci interroga su come stiamo annunciando il Vangelo oggi. Ci chiede di aiutare sempre più la famiglia a occupare il suo posto fondamentale nella trasmissione della fede. Chiede di rivedere tutti i percorsi abituali di iniziazione cristiana, in un tempo nel quale il cristianesimo non è cifra normale della cultura, ma pietra di scandalo, una mentalità minoritaria, ma capace di novità.

 

  • Vivere la carità come testimonianza di Chiesa. Il tempo di emergenza da covid-19 ha chiesto alle comunità di esser pronte a vivere la carità senza troppi tentennamenti né preamboli teorici. “Fare” per i discepoli di Cristo è sinonimo di “amare”. Un fare che chiede di essere capito, interiorizzato e fatto diventare struttura portante della nostra vita cristiana: ci ricorda che la sola fede senza le opere è morta (Gc 2, 14ss), che se è vero che è la fede a salvare sono le opere di carità che la rendono trasparente e trasfigurante il Territorio e il Popolo a cui si annuncia il Vangelo.

 

  • Celebrare la speranza e la bellezza di essere Chiesa. Chiese vuote, chiese domestiche attive. I momenti liturgici comunitari hanno subito molto le conseguenze del tempo pandemico. Momenti comunitari sospesi, strumenti multimediali utilizzati per la partecipazione, preghiere domestiche. Dopo il lockdown del 2020, in tante comunità le uniche attività collettive sono state le celebrazioni liturgiche. Questo pone attenzione su come stiamo celebrando e su quanto la liturgia è davvero fons et culmen della vita delle persone e della Chiesa tutta. Siamo chiamati a rendere belle-attraenti le nostre liturgie e capaci a trasmettere la virtù della Speranza.

 

  • Essere e costruire la comunità credente. Papa Francesco chiede continuamente che maturi uno stile ecclesiale che sia sinodale. La sinodalità non è la strategia di un evento, ma un modo di strutturare la vita comunitaria quotidiana. Dobbiamo crescere nella capacità di essere comunità e di praticare la comunione. La comunità non è tale perché messa assieme da un territorio, da uno spazio e da tempi condivisi, ma da una scelta consapevole e dichiarata di stare assieme come Gesù vuole. Tutti gli organi e strumenti di partecipazione possono essere valorizzati davvero se sono espressione di una reale volontà di fare comunità. In un tempo di appartenenza povera ad ogni forma di collettività, le nostre comunità possono essere belle profezie di fraternità ed amicizia: si tratta di prendere sul serio come programma di vita ad intra ed ad extra l’enciclica Fratelli Tutti.

 

  • Collaborare per una cittadinanza responsabile. La sfida delle sfide è far sì che ogni cristiano si senta protagonista della storia che vive, in ogni ambito e momento della sua vita. Può portare la luce e il sapore della sua testimonianza in ogni dove e ad ogni costo, in maniera eroica o discreta, a secondo delle situazioni e con la ricchezza dei suoi talenti e professionalità acquisita. Come lievito nella massa o come lucerna sul moggio, o come voce che grida dai tetti che non c’è esistenza che non sia chiamata alla bellezza del Vangelo. Si tratta di portare ovunque i valori del Regno senza imporli: impariamo da battezzati la sfida della Evangeli Gaudium e della Laudato Si’.

 

Attenzioni attinenti alle cinque sfide pastorali

 

Per ognuna delle 5 sfide tutti gli Uffici/Servizi pastorali hanno indicato alcune attenzioni da avere perché la Trasfigurazione possa verificarsi. Di seguito riporto alcune attenzioni ed aspetti che hanno caratteristiche laboratoriali per ognuna delle singole sfide.

 

1a Trasmettere la fede nel mondo di oggi

 

La breve sintesi che segue ha la volontà di unificare le diverse attenzioni sollevate dai singoli Uffici e Servizi diocesani sulla sfida del Trasmettere la fede nel mondo di oggi: si tratta del primo mandato della Chiesa, di essere missionaria ed annunciatrice del Vangelo fino agli estremi confini della terra. Questi confini, per noi, sono le città ed i luoghi che costituiscono la nostra comunità ecclesiale arcidiocesana. Il testo che segue enuclea le attenzioni attraversi concetti brevi, ma in grado di offrire un quadro concettuale unitivo e ordinato che tiene conto delle sensibilità e professionalità dei diversi Uffici e Servizi diocesani.

Per rendere possibile la trasmissione della fede nel mondo di oggi nel Territorio ed al Popolo del nostro Gargano si propongono 10 attenzioni, quasi a mo’ di decalogo catechetico:

  1. recupero e centralità della Sacra Scrittura;
  2. linea formativa tra liturgia e vocazione al fine di ripristinare, anche a livello metodologico, l’insegnamento della preghiera;
  3. formazione dei catechisti ed educatori con attenzione al significato del ministero stesso[46];
  4. favorire il potenziale catechetico dei genitori e degli inseganti di religione cattolica;
  5. formazione integrale dell’adulto credente (equilibrio tra catechesi, responsabilità e valori);
  6. puntare sulla formazione dei giovani favorendone l’attenzione alla Parola, alla catechesi, alla dottrina sociale della Chiesa ed alla testimonianza della legalità;
  7. recuperare il significato e segno della comunità come luogo dell’annuncio di Cristo;
  8. stimolare i membri della comunità a sentirsi parte attiva dell’annuncio del Vangelo nella propria realtà di vita quotidiana;
  9. indicare la forza profetica della testimonianza della fede, coraggiosi e pronti a rendere ragione della speranza (Cf 1Pt 3, 15);
  10. crescere nella percezione della capacità di trasmissione della feda da parte di ogni credente.

2a Vivere la carità come testimonianza di Chiesa

Bisogna prendere coscienza di quello che può essere chiamato il principio pastorale fondamentale: soltanto ascoltando e rispondendo alle più semplici richieste della gente e ponendosi accanto alle loro concrete situazioni esistenziali si potrà essere ascoltati quando si parla di valori superiori, che toccano gli ambiti della spiritualità e trascendenza, e di impegni in campo etico e sociale. Di fronte al grido di “fame” (di ogni genere) la Chiesa e le singole comunità credenti non possono restare spettatrici indifferenti e tranquille. Annunciare Cristo, che si fa “pane” e si celebra ogni domenica nell’Eucaristia, richiede un generoso impegno di solidarietà verso i poveri, i deboli, gli ultimi, gli scartati: diversamente si compiono solo rituali che sanno di tradizionalismo muto e di folklore culturale o si proclamano principi ideologici e non vita sperimentata e sorgiva di generatività.

Se la fede si trasmette per attrazione sappiamo che ciò che attrae è l’amore, la carità! L’amore e la cura per l’altro debbono diventare lo stile di vita con cui crescere le nuove generazioni e la cultura da alimentare continuamente nella comunità.

Educare al volontariato e alla fraternità, alla gratuità, i nostri giovani e gli adulti, ma anche farsi voce di chi non ha voce e denunciare le storture sociali e le numerose illegalità, purtroppo incancrenite nel nostro tessuto sociale, che ledono grandemente la giustizia e la legalità, costituiscono doveri essenziali per la nostra Chiesa locale, i quali comportano:

  • generare nuova cultura della carità per far crescere un’onda che invada l’intero tessuto sociale garganico;
  • riesaminare il vero significato di Chiesa in uscita, “Chiesa aperta” che non si ripieghi su sé stessa e capace, attraverso dialogo e sinergie, di farsi presenza nelle periferie esistenziali e denunciare le ingiustizie.

L’amore e la cura per l’altro debbono diventare lo stile di vita con cui crescere le future generazioni. Sarebbe bello se all’interno dei nostri processi educativi comprendessimo anche esperienze che stimolino i giovani nel rendersi protagonisti all’interno delle realtà caritative che già abbiamo.

Oltre alle attività in corso e da sviluppare a capo   della   Caritas   diocesana   e   di   quelle   parrocchiali   si   segnalano   tre   attenzioni   di   carattere educativo e relazione sull’insieme del Territorio diocesano:

  1. progettare luoghi di servizio alla carità con i giovani e per i giovani;
  2. far vivere esperienze di servizio a ragazzi e giovani nei percorsi catechetici/formativi (Grest, campi scuola, oratorio, etc.);
  3. creare laboratori e progetti con Enti del territorio, associazioni, scuole, imprese, gruppi spontanei di cittadini al fine di generare la cultura della cura capace di fermentare l’intero tessuto sociale.

Ricordiamoci che per far crescere il Regno di Dio nel Territorio e tra il Popolo bisogna seminare fede, ma i frutti da raccogliere saranno carità e giustizia!

3a Celebrare la speranza e la bellezza di essere Chiesa

La liturgia è, da una parte, il luogo che Dio ha scelto per rendersi presente ed efficace nella vita comunitaria e personale dell’uomo e, dall’altra, lo spazio in cui l’uomo può protendersi verso Dio offrendo a Lui tutta la propria storia. Per curare e far risplendere l’autenticità dell’incontro tra Dio e l’uomo, il nostro Territorio e il nostro Popolo ci chiedono alcune attenzioni a cui fare riferimento al fine di rendere il rito liturgico capace di accogliere le istanze del tempo presente. Se il tempio accoglie la strada sarà sempre più in grado di trasfigurare ogni credente e le sue personali scelte in ambito privato e sociale, ed il tempio collaborerà a cambiare la strada.

 

Una modalità facile e immediata per realizzare questo è porre maggiore attenzione nelle liturgie domenicali alla Preghiera dei fedeli per esigenze sociali, non solo quelle di carattere nazionale, ma esigenze ed attenzioni locali, o proporre momenti di preghiera e riflessione che accompagnino momenti importanti per la vita della società civile garganica.

Nella formazione degli operatori pastorali è urgente rendere evidente l’intima connessione tra celebrazione, testimonianza e carità aiutando i laici a trovare il modo per vivere questa connessione anche se il proprio “ambito di lavoro in parrocchia” si concentra su una delle tre dimensioni. Nella formazione, per qualsiasi settore, si avverte la necessità di una rinnovata centralità della Parola di Dio non solo nella consueta modalità della lectio divina, da incoraggiare e potenziare, ma anche nelle scelte che ogni comunità compie nei propri programmi catechistici, i quali devono essere in grado di armonizzare le diverse modalità di catechesi, tenendo insieme la Parola di Dio domenicale e l’elemento esperienziale, che sotto forma di attività aiuti a coglierne il senso oltre che il significato.

Ci si impegni in una riscoperta e potenziamento della catechesi liturgica, al fine di aiutare la comprensione dei gesti, simboli e luoghi liturgici presenti nei vari riti, non solo nella preparazione immediata ai Sacramenti, occasione per incontrare i lontani.

 

Rendere la liturgia perno che accoglie e ritorna alla vita, significa anche favorire l’incontro tra rito liturgico e cultura. Questo impegna ciascun credente, specie se collabora come guida/animatore nella comunità, a vivere sapientemente nel tessuto sociale, senza sminuire o demonizzare l’evolversi del linguaggio e del rituale simbolico della gente garganica, specialmente dei nostri giovani, sentinelle di avanguardia nel mondo che cambia. Tale rinnovamento deve entrare anche nelle nostre liturgie, ma non come vento di tempesta che distrugge il patrimonio di gesti e simboli che costituiscono garanzia di efficacia ai Sacramenti, ma come brezza leggera in grado di armonizzarsi con la tradizione e realizzare quella creatività che da sempre le norme liturgiche prevedono ed auspicano.

 

Far nascere o investire più energie e risorse (anche economiche) nei gruppi del Coro e del Servizio Liturgico e prendersene pastoralmente cura a livello parrocchiale e cittadino, dando una speciale attenzione ai giovani, costituisce un elemento di assoluta importanza nella vita liturgica ed extra-liturgica di ogni comunità. Si tratta di incoraggiare i ragazzi e i giovani a riscoprire la bellezza della liturgia, attraverso dei percorsi di accompagnamento, che non si limitino soltanto alla conoscenza puramente pratica dei movimenti da compiere sull’altare, ma che aiutino ad entrare nello spirito profondo del mistero celebrato fino a renderlo forma e misura della personale vita di fede. Una siffatta attenzione e l’uso di un linguaggio musicale, verbale e rituale più fresco e vicino al sentire dei giovani, renderà le liturgie più familiari non solo ai giovani, ma anche a più nobili, comprensibili e vicine a tutte le età.

 

Il tempo della pandemia ha rivelato l’importanza della preghiera domestica: bisogna incoraggiarla tramite la realizzazione di sussidi da far pervenire alle famiglie. Inoltre la scoperta del potenziale dei social e delle tecnologie ci ha offerto e ancora offre la possibilità di raggiungere anche chi ordinariamente non frequenta o è impossibilitato a farlo. Conoscere questi mezzi ed imparare ad usarli anche in campo liturgico collabora a far crescere la speranza e bellezza della Chiesa.

4a Essere e costruire la comunità credente

I profondi cambiamenti culturali che stiamo vivendo richiedono che si modifichi anche il volto delle nostre parrocchie e movimenti ecclesiali. Oggi la gente sente il bisogno di comunità parrocchiali attente ed estroverse, capaci di ascoltare i bisogni e le povertà di tutti; allargate/inclusive, di cui si fa parte non perché si svolge un compito affidato dal parroco, ma semplicemente perché si è battezzati; sinodali, in cui i laici vivano una vera corresponsabilità nell’annuncio del Vangelo; prive di individualismi e protagonismi in favore di uno spirito di comunione; con organi di partecipazione che sostengano la vita della comunità e non siano solo orpelli formali; popolari, perché in grado  di tenere insieme tutte le generazioni e tutti gli strati sociali; capaci di creare alleanze; accoglienti con i giovani e palestre in cui le giovani generazioni possano imparare a diventare protagonisti delle sfide dei tempi.

 

Per fare comunità Gesù manda i discepoli “a due a due”, perché la missione non può essere individuale, ma va svolta all’insegna della condivisione, della corresponsabilità, dell’aiuto e della vigilanza reciproca. Riscoprire l’assemblea liturgica come “Popolo dei radunati”, insistere sull’importanza dell’Eucarestia domenicale come “preghiera perfetta gradita a Dio” e come occasione di incontro, per favorire la condivisione di gioie, ansie, paure e difficoltà e instaurare un dialogo con i lontani, convenuti in chiesa per qualche ricorrenza. Fare comunità significa anche abitare le “pietre” che formano il patrimonio ecclesiastico attraverso la presenza delle “pietre vive” che sono i credenti che costituiamo la comunità ecclesiale: ciò implica coinvolgere maggiormente tutti i fedeli nella cura, nella responsabilità, nella gestione e nella valorizzazione dei beni ecclesiastici. Questi tempi ci hanno fatto comprendere che “non ci si salva da soli” e che vivere la comunione è un’esigenza più che un “mero momento di svago”.

 

Ogni attività pastorale è importante perché arricchisce la vita comunitaria e ne favorisce la crescita e aiuta una comunità a riscoprire la sua naturale vocazione a trasmettere la fede. L’azione pastorale deve aiutare a sentirsi in famiglia e a sentirsi famiglia: ogni programma o iniziativa pastorale deve mirare a qualificare sempre più le relazioni tra le persone all’interno della comunità ecclesiale e questo vale in particolare per gli operatori pastorali. Ogni comunità dovrà favorire in modo creativo il protagonismo ecclesiale delle famiglie, partendo dall’attenzione ai nubendi, che hanno bisogno di scoprire e maturare il senso di appartenenza alla comunità. Vanno promossi luoghi di aggregazioni per i giovani, ambienti che possono sentire loro e che possano aiutarli a fare comunità e gruppo, luoghi che possano abitare e prendersi cura. Vanno avviati incontri misti con altre realtà presenti all’interno delle nostre comunità, in modo che i giovani non si sentano un gruppo a margine della comunità, ma parte integrante ed integrata delle comunità stesse.

 

In ogni comunità parrocchiale sono da sempre presenti momenti di incontro e condivisione, ma oggi è necessario fare un ulteriore passo: uscire dai propri confini per essere più comunità fuori dalla propria comunità, con una particolare attenzione a vivere la carità nei confronti di ogni fratello nel bisogno, a promuovere a livello interparrocchiali momenti formativi, attività ludiche o pellegrinaggi. Diventa uno stimolo strategico pensare attività ed azioni non solo in chiave parrocchiale, ma come zone pastorali, tra parrocchie limitrofi o di quartiere. È opportuno fare attenzione alle Associazioni Culturali/Sociali sul territorio: cercare di coinvolgerle nella prassi parrocchiale aiuta ad andare oltre il “solito” e porre attenzione ad aspetti meno presi in considerazione. Una delle grandi potenzialità delle attività sportive o artistiche consiste nell’offrire importanti occasioni di incontro tra sensibilità diverse, anche a livello intergenerazionale, favorendo uno scambio di valori e di visioni pedagogiche. Questo può aiutare le comunità a superare alcune forme di rigidità e di legalismo che talvolta ingessano i rapporti. Una delle sfide più forti e coraggiose da vivere è l’accoglienza dei migranti e di fedeli di altre confessioni religiose, con un confronto animato dalla consapevolezza di essere fratelli tutti, provando ad affiancare chi arriva da noi affinché possa costruire una casa sentendosi a casa, libero di restare o di partire, ma soprattutto facendo percepire che la nostra terra, la nostra casa è anche la sua.

 

Perché una comunità viva queste trasfigurazioni occorre una leadership che sia all’altezza della sfida. Non sempre il ministero di guida della comunità è svolto con le dovute competenze: alla leadership ci si educa, ci si può educare. Bisogna stimolare i presbiteri e diaconi a rimettersi in gioco in una formazione più mirata su diversi aspetti umani, sociali, psicologici della leadership perché possano offrire nuovi ed efficaci stimoli alle comunità. In questo periodo di Covid la vita e il ministero del presbitero sono stati messi a dura “prova”, passati dalla frenesia “pastorale” ad una solitudine “relazionale”. Per un determinato periodo il presbitero ha dovuto mettere in campo una vera e propria “resistenza esistenziale”, facendo i conti con sé stesso, con la propria fede, con il proprio ministero, con le paure: per certi versi sono crollate quelle certezze su cui poggiava il modo di pensare e di agire. Sarà decisivo definire con accuratezza un progetto di formazione permanente, il cui scopo primario sarà quello di accompagnare ogni presbitero, soprattutto giovane, con un programma esteso all’intera esistenza[47].

 

5a Collaborare per una cittadinanza responsabile

 

Le indicazioni che seguono hanno preso avvio dalle seguenti istanze   emerse nel processo di verifica pastorale attraverso l’ascolto sinodale:

  • maggiore attenzione alle potenzialità dei nuovi media nell’evangelizzazione;
  • accresciuta sensibilità ai temi del creato, del territorio, del sociale e della cosa pubblica;
  • aumento della precarietà economica di molte famiglie per mancanza di lavoro;
  • ascolto del vissuto a partire da quello dei più deboli;
  • pensare al futuro del territorio insieme a chi non fa parte dei circuiti ecclesiali;
  • nuovi contenuti e nuove modalità di formazione per i laici

Si tratta   di questioni complesse che non sono nuove, ma che, a causa della pandemia, si presentano con maggior urgenza e cin un volto nuovo. E’ compito di tutta la comunità diocesana, in uno stile sinodale permanente, dare avvio a processi virtuosi aperti al contributo anche di chi non fa parte delle nostre comunità ecclesiali.

 

Collaborare per una cittadinanza responsabile vede in prima linea i laici: è loro peculiarità testimoniare Cristo risorto nella res-pubblica. Vanno avviti processi nei quali i laici non siano semplicemente chiamati a una formazione teorica, ma diventino tra il Popolo e sul Territorio protagonisti di discernimento e di proposte che li vedano attivi e, secondo il loro carisma, facciano camminare sulle loro gambe la sfida della cittadinanza responsabile. Per favorire tale finalità occorre uno sforzo formativo a vari livelli:

  • i temi relativi alla cittadinanza responsabile (ecologia integrale, politica, salvaguardia del pianeta, dignità del lavoro ecc.) entrino nei cammini formativi ordinari delle comunità ecclesiali. L’Ufficio Catechistico, della Pastorale Sociale, del Laicato e per la Cultura aiutino le comunità ad avviare tale processo partendo dall’ascolto dei vissuti ed evitando forme di sterile indottrinamento;
  • è utile proporre esperienze-laboratorio che:
  • siano a più voci e in cui i laici abbiano la possibilità di potersi esprimere e confrontare;
  • si differenzino per temi e per territorio;
  • vedano anche la presenza di chi non è tra i cosiddetti operatori pastorali e di chi non è avvezzo a frequentare le nostre comunità, ma è portatore di esperienze lavorative, di competenze e di vissuti significativi che meritano di essere ascoltati;
  • tentino esercizi di discernimento da mettere a disposizione di tutta la comunità diocesana;
  • siano ideati e organizzati dagli uffici e dai servizi diocesani competenti sulle varie tematiche.

Da dove cominciare? In modo esemplificativo:

  1. Laboratorio su Ecologia integrale:
  • individuare le fonti di inquinamento e i danni che esse infliggono alla natura e agli abitanti del Gargano;
  • incrementare la consapevolezza che spetta a tutti di difendere il proprio territorio;
  • individuare stili di vita individuali e collettivi sobri e rispettosi della natura e delle persone, meno voraci, più sereni, meno ansiosi e più fraterni[48].
  1. Laboratorio su Educare alla legalità:
  • fare il punto a cominciare dalle città le cui Amministrazioni sono state sciolte per infiltrazioni mafiose;
  • individuare risposte-proposte che le comunità ecclesiali si sentono di offrire in base ai valori evangelici.
  1. Laboratorio su Cattolici e politica:
  • incontri per tenere aperto e vivo il dialogo con politici e amministratori locali del territorio garganico;
  • favorire l’impegno dei cattolici in politica: sollecitare il dialogo tra i politici, le comunità parrocchiali e le associazioni ecclesiali;
  • creare percorsi per riportare la politica alla “P maiuscola”, ad essere “forma alta di carità”.
  1. Laboratorio sulla diaconia del lavoro:
  • incontri con imprenditori, operatori e professionisti del commercio-agricoltura-artigianato-pesca-turismo per ascoltare e condividere i loro timori e smarrimenti di fronte alle difficoltà nel mantenere in vita le attività produttive. Individuare insieme spazi di condivisione, di progettazione e di visione del futuro sulla base di una rinnovata responsabilità sociale collegata al Territorio locale.
  • proporre la conoscenza la dottrina sociale della Chiesa quale fermento concreto di sviluppo economico equo e solidale a livello locale.
  1. Laboratorio sulla povertà educativa:
  • ascolto dei protagonisti dei percorsi educativi, in primis di quelli scolastici, per individuare insieme strategie che garantiscano ad ogni bambino ed adolescente il diritto all’apprendimento;
  • contribuire alla diffusione della cultura digitale tra i più deboli, per evitare che questa non diventi un ulteriore motivo di marginalizzazione.
  1. Progetto Comunicazione e Social Network:
  • oltre ai laboratori sopra elencati è il momento di uscire dall’uso emergenziale della comunicazione digitale e di sfruttare le enormi potenzialità dei social network. Anche la nostra Chiesa locale deve far propria, comprendere e vivere la cultura digitale per essere prossima e compagna di viaggio degli uomini e delle donne che, anche nel nostro territorio, abitano numerosissimi il “sesto continente”. E’ un impegno che ha da protagonista l’Ufficio delle comunicazioni, ma che coinvolge tutti gli altri Uffici e Servizi pastorali. E’ necessario ideare una comunicazione al passo con i tempi e armonizzata al suo interno con stile e regole condivise che la rendano efficace. Occorre cercare nelle comunità forze umane e competenze da mettere a disposizione di questo progetto.
  • la comunicazione digitale diocesana si deve armonizzare con quella cartacea tradizionale trovando il giusto equilibrio sui tempi e sul grado di approfondimento delle notizie e sul target dei destinatari. E’ auspicabile che ad un tale sforzo comunicativo corrisponda poi la disponibilità delle comunità a farsi eco dei temi e delle notizie facendone oggetto di divulgazione e discussione.

 

Primi protagonisti di questi percorsi e progetti saranno la famiglia, luogo di prima educazione al bene comune, e i giovani. Sono essi i motori efficaci nell’avvio dei processi di conversione ecologica e di legalità.

 

Metodologia annuale

 

A livello diocesano ci sarà un appuntamento assembleare a settembre per dare inizio all’anno pastorale e mettere a fuoco una questione (emergenza locale o universale) alla luce delle 5 sfide.

Ogni anno, ogni vicaria si concentra su una delle cinque sfide aiutata dagli Uffici/Servizi strettamente collegati.

 

AA.PP. 2021-26 Trasmettere la Fede nel mondo di oggi Vivere la Carità come testimonianza di Chiesa Celebrare la Speranza e la bellezza di essere Chiesa Essere e costruire la Comunità credente Collaborare per una Cittadinanza responsabile
Manfredonia 2021/22 2025/26 2024/25 2023/24 2022/23
Vieste 2022/23 2021/22 2025/26 2024/25 2023/24
S. Giovanni R. 2023/24 2022/23 2021/22 2025/26 2024/25
M.S.Angelo 2024/25 2023/24 2022/23 2021/22 2025/26
Gargano N. 2025/26 2024/25 2023/24 2022/23 2021/22

 

Nel giro di cinque anni tutte le vicarie saranno cresciute su tutti gli aspetti contenuti nelle cinque sfide evidenziate. Così al termine del quinquennio (2021-2026) si procederà ad un anno di verifica con un percorso di discernimento sinodale: lAnno Pastorale 2026/27 sarà l’anno di verifica.

 

Preghiera per chiedere al Signore di collaborare alla Trasfigurazione

 

Jean Guitton, filosofo e teologo laico del XX secolo, amico di Papa San Paolo VI, sosteneva che il Cristianesimo per il secolo XXI o sarà spirituale o non sarà. Spirituale significa lasciare che sia lo Spirito a guidare la storia. E così che dopo il secolo della ricerca, che si manifesta nel primato della scienza (XIX), e della capacità trasformante che si manifesta nella fiducia smisurata nella tecnologia (XX), si apre quello caratterizzato dalla relazione-spirito (XXI): e la relazione si manifesta attraverso la bellezza!

E’ terminato il tempo dell’adesione alla verità per deduzione logica o per interessi di buona educazione e cultura, oggi l’unica modalità per com-prendere (= assumere insieme) la verità è la via dell’attrazione che afferra l’emotività fatta relazione. Da credenti in Cristo la riconosciamo come la via della bellezza-filocalia: la via del Tabor che si fa Trasfigurazione!

 

Fratelli e sorelle,

 

che con le nostre vite e differenti vocazioni sappiamo annunciare e far vedere quanta bellezza e capacità trasfigurante contenga il Vangelo attraverso:

il ministero sacerdotale,

la vita consacrata,

la famiglia benedetta dal matrimonio,

la vita laicale quale espressione del battesimo nelle attività secolari.

 

Consegno a tutti voi, sorelle e fratelli dell’amata Chiesa che è in Gargano, e che desiderate portare il loro contributo da discepoli-missionari alla Trasfigurazione del nostro Territorio e Popolo la meravigliosa preghiera che il Cardinal Roger Etchegaray aveva composto per sé diventato vescovo di Marsiglia nel 1971. Invito ognuno a terminare l’orazione con la riga finale che corrisponde alla propria vocazione nella Chiesa[49].

 

Signore, io non sono un acrobata

anche se tu mi chiami costantemente a vivere

al di sopra dei miei mezzi.

Ma sono volentieri il tuo povero “saltimbanco”

pronto a tutte le capriole,

a tutti i soprusi

per il piacere degli altri.

Signore insegnami a non colmare le brecce,

ma ad allargarle per farne nuovi cammini.

Signore, insegnami a non medicare le ferite,

ma a scavarle per farne nuove sorgenti,

Signore, insegnami a non piangere su una Chiesa minoritaria,

ma a versarvi un po’ di quel sale che sala tutto il mare.

Signore insegnami a non costruire la Chiesa

come un cantiere ben programmato,

ma a lasciarla spuntare come una pianta folle

sotto il sole di un Dio imprevedibile.

 

E’ sempre il tempo giusto per essere LAICO battezzato!

E’ sempre tempo giusto per essere FAMIGLIA nel matrimonio!

E’ sempre il tempo giusto per essere CONSACRATO/A!

E’ sempre il tempo giusto per essere PRETE!

E’ sempre il tempo giusto per essere VESCOVO!

 

Amen!

 

 

+ p. Franco Moscone crs

Arcivescovo

 

 

 

Manfredonia, 30 agosto 2021

Solennità della B.V.M. Regina di Siponto

[1] Cf. Francesco alla 74° Assemblea CEI (Roma 24 maggio 2021)

[2] Cf Francesco discorso del 27 marzo 2021

[3] Appunti presi da “Sognate anche voi questa Chiesa”, Sussidio a cura della Segreteria generale della CEI all’indomani del 5° CEN, Firenze 2015, 65.

[4] Articolo apparso su Repubblica del 15 maggio 2021

[5] Articolo apparso sul Corriere del 18 maggio 2021

[6] Francesco, Lettera apostolica Patris corde in occasione del 150° anniversario della dichiarazione di San Giuseppe quale patrono della Chiesa universale, Roma 8 dicembre 2020, 5.

[7] Mt, 17, 1-9; Mc 9, 2-10

[8] Lc 24, 13-35 e At 8, 26-40. Vedremo il parallelismo strutturale e linguistico tra questi testi al termine del paragrafo 2.1.

[9] Il Seminatore Uscì a Seminare, pag 31-33

[10] Cf. uso del termine εἰσόδου, eisodou in At 13,24 inteso come “venuta”.

 [11] il termine diachōrizomai è un apax nel Nuovo Testamento.

[12] Piotr Zygulski, giovane insegnante della Diocesi di Savona-Noli.

[13] Cf Francesco, Lumen Fidei, nn 18 e 46

[14] La citazione la riporto a memoria e risale al 2010

[15] Tutti e tre gli Evangelisti riportano il verbo scendere sottolineando l’importanza di ritornare a valle tra la gente: Mt 17, 9; Mc 9, 9; Lc 9, 37.

[16] Ernesto Olivero, Il Vangelo secondo il Vangelo, ed. Priuli e Verlucca 2020, pag 172

[17] EG 154: “Il predicatore deve anche porsi in ascolto del popolo, per scoprire quello che i fedeli hanno bisogno di sentirsi dire. Un predicatore è un contemplativo della Parola ed anche un contemplativo del popolo. In questo modo, egli scopre le aspirazioni, le ricchezze e i limiti, i modi di pregare, di amare, di considerare la vita e il mondo, che contrassegnano un determinato ambito umano, prestando attenzione al popolo concreto al quale si rivolge, se utilizza la sua lingua, i suoi segni e simboli, se risponde ai problemi da esso posti. Si tratta di collegare il messaggio del testo biblico con una situazione umana, con qualcosa che essi vivono, con un’esperienza che ha bisogno della luce della Parola. Questa preoccupazione non risponde a un atteggiamento opportunista o diplomatico, ma è profondamente religiosa e pastorale. In fondo è una vera sensibilità spirituale per saper leggere negli avvenimenti il messaggio di Dio, e questo è molto di più che trovare qualcosa di interessante da dire. Ciò che si cerca di scoprire è ciò che il Signore ha da dire in questa circostanza. Dunque, la preparazione della predicazione si trasforma in un esercizio di discernimento evangelico, nel quale si cerca di riconoscere – alla luce dello Spirito – quell’“appello”, che Dio fa risuonare nella stessa situazione storica: anche in essa e attraverso di essa Dio chiama il credente”.

 

[18] FT 272; è facile ritrovare Il riferimento è alle tre parole chiavi della Rivoluzione Francese: libertà, eguaglianza e fraternità.

[19] Cf Il Seminatore Uscì a Seminare, pag 76 e 80.

[20] Idem, pag 78

[21] Per quanto riguarda i dati su Manfredonia e il suo territorio cfr. Nicola di Bari, Il Futuro della Città, Andrea Pacilli Editore pag 51-60, 114-117

[22] Cf Fratelli Tutti, capitolo V, La migliore politica

[23] Cf Il Seminatore Uscì a Seminare, pag 83-84.

[24] Ferdinando G. Menga, Lo Scandalo del Futuro, Edizioni di Storia e Letteratura 2016, pag 30-31.

[25] Ferdinando G. Menga, L’emergenza del futuro. I diritti del pianeta e le responsabilità del presente, Donzelli Editore, Roma 2021, p. 80.

[26] Cf Il Seminatore Uscì a Seminare, pag 74.

[27] Francesco, Christus Vivit, nn 143-144

[28] Cf Francesco Amoris Laetitia, nn 183.184.232

[29] Armando Matteo, Pastorale 4.0, Ed. Ancora 2020, pag 110 (Riprenderò osservazioni da questo lavoro nel paragrafo 5. Trasfigurare la CHIESA)

[30] Cf Il Seminatore Uscì a Seminare, pag 80-83

[31] Giuseppe Bellia (ed.), 100 pagine/di don Puglisi. Il coraggio della speranza, Città Nuova, Roma 2005, 74.

[32] Suggerimento offerto nel noto discorso intitolato “La sentinella”, tenuto il 18 maggio del 1994 in ricordo dell’amico Giuseppe Lazzati. Testo pubblicato su Humanitas per i tipi della Morcelliana, ma presente anche in diverse opere collettive che ripropongono gli scritti di Dossetti.

[33] P. C. Rivoltella, Le virtù del digitale. Per un’etica dei media, Morcelliana, Brescia 2015. L’autore è stato invitato a tenere una relazione dal titolo “Chiesa e comunicazione” all’Assemblea Generale della CEI del 21 maggio del 2018.

[34] Discorso di Paolo VI al Pontificio Consiglio per i Laici 02 ottobre 1974 e Evangelii nuntiandi, 1975, 41.

[35] C. Bonini e G. Foschini, Ti mangio il cuore, Ed. Feltrinelli; S. De Carolis, Con un piede nella fossa, LB Edizioni.

[36] Passione per Cristo Passione per l’Umanità, Ed. Paoline 2005, pag 87-88

[37] Benedetto XVI, Deus Caritas Est, n. 1 (25 dicembre 2005)

[38] Benedetto XVI, Omelia a Aparecida-Brasile, 13 maggio 2007 (citata in EG n. 14 e ripresa continuamente da Francesco)

[39] Giorgio Gawrosnski su L’Osservatore Romano, del 22 febbraio 2021: Le Chiese vuote e l’Umanesimo integrale.

[40] Massimo Borghes su L’Ossercatore Romano del 15 maggio 2021

[41] Armando Matteo, Pastorale 4.0, Ed Ancora 2020 pag 12.

[42] Ho sintetizzato passaggi che si trovano alle pagine 10-12 e 54-55

[43] Idem, par 50-60

[44] Si tratta del motto del Giubileo straordinario della Misericordia 2015-2016: Misericordiosi come il Padre.

[45] CF mia presentazione della Lettera Amato Gargano l’11 settembre 2020

[46] Francesco, Antiquum Ministrium, 10 maggio 2021

[47]Cf. Pastores dabo vobis,70

[48] Querida Amazonia n. 58

[49] Card. Roger Etchegaray, L’uomo a che prezzo?, Ed. San paolo 2012, pag. 95-96